Israele tra minacce e ansia per gli ostaggi

Netanyahu: "Andremo a Rafah in ogni caso". Ma la scelta sull'accordo è nelle mani di Hamas

Israele tra minacce e ansia per gli ostaggi
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La fotografia del Medioriente, nebbiosa e fosca, in queste ore la si può osservare attraverso il vetro opaco della trattativa sugli ostaggi ebrei di Hamas. Che diventano meno a ogni istante: è il Medioriente peggiore, strappato il 7 ottobre da Hamas alla sua storia di mondo di riconoscimento reciproco fra arabi e Israele coi Patti di Abramo, ricacciato nel Medio Evo. Chi decide, in queste ore, se la guerra avrà seguito a Rafah è la più perversa organizzazione terroristica del mondo, che smembra i vecchi, stupra le donne, brucia i bambini e poi compie una trattativa sugli ostaggi che uccide e tortura, presentandosi alle conferenze stampa in hotel a cinque stelle mentre il suo antagonista democratico, il governo israeliano, viene torturato dall'opinione pubblica mentre lo combatte.

Tutto il mondo assiste allo spettacolo, aspetta che Sinwar decida del futuro, fermi la guerra, consegnando un numero ormai dimagrito oltre misura (si parla di 20 o 30 su 133) di ostaggi, i più bisognosi, mentre si tiene il boccone prelibato dei giovani soldati e delle ragazze per la prossima tappa. In cambio Israele accetta di consegnare migliaia di prigionieri-terroristi; accetta anche il ritorno al nord della gente di Gaza che si era spostata al sud e lo smantellamento del blocco militare che controlla che i terroristi non rioccupino tutta la Striscia nascosti fra la folla. Hamas vuole un cessate il fuoco indeterminato, Israele accetta di concederlo per varie settimane e più avanti chissà. E si capisce: se ci si accorda non si entra a Rafah.

L'Egitto è il più interessato fra i mediatori, pone a Hamas e a Israele le sue condizioni (controllo del confine con Gaza, lo Tzir Philadelphi); gli Stati Uniti da mesi discutono e preparano con Israele il passaggio degli sfollati da Rafah in altre zone e l'ingresso con azioni mirate che evitino spargimento di sangue. Biden punta su questo punto la sua carta elettorale pacifista, ma sa da un'indagine recente che l'80 per cento dell'opinione pubblica americana sta con Israele e il 72 è favorevole a un ingresso a Rafah che ponga fine al potere di Hamas.

Netanyahu tiene le carte vicine al petto: ieri, di fronte alle famiglie dei soldati uccisi in guerra, ha promesso di entrare a Rafah e di «annientare i battaglioni di Hamas». È un impegno dovuto, che afferma l'irrinunciabile, cioè che Israele non si arrenderà e che Hamas sarà sconfitto, e non dice nulla su come il primo ministro si comporterà se Sinwar accetterà l'accordo «straordinariamente generoso», come ha detto Antony Blinken.

Importante che Biden ribadisca la forza dell'alleanza con gli Usa: dopo il grande successo di Israele nella risposta all'Iran si lavora assieme a vari Paesi anche dei Patti d'Abramo su una prospettiva che certo Bibi valuta. Intanto, se per caso Sinwar dovesse accettare, Rafah potrebbe essere sospesa senza rinunciarvi, anche agli occhi dell'Arabia Saudita. E altrimenti, se Sinwar dice di no? Si avrebbe una Rafah mirata specie su obiettivi specifici, i soldati d'Israele sono già schierati sul confine. Si prenderebbe tempo mentre si mettono in moto le misure di sgombero e aiuto umanitario alla popolazione concordate con gli Usa.

La guerra comunque, e Biden lo sa, non può certo finire sulla restituzione del potere a Hamas a Rafah, si estenderebbe ovunque, sarebbe la fine della sovranità di Israele sul proprio territorio, la inabilità di vaste zone di confine, e soprattutto una terribile sconfitta della democrazia, del buon senso, della morale democratica di tutto il mondo. Biden sa che non conviene a nessuno che non si vada per niente a Rafiah, anche se prima di tutto vengono gli ostaggi, e dirà, come Manzoni, «adelante Bibi, con juicio».

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