Campasso, il quartiere dove anche gli stranieri non vogliono più stare

Campasso, il quartiere dove anche gli stranieri non vogliono più stare

(...) di due bambini di 12 e 9 anni. Abita al Campasso, in via Fillak uno dei quartieri del ponente genovese più colonizzati dagli extracomunitari che hanno scelto Genova dopo aver lasciato il loro paese. Sono parole che sintetizzano al meglio quella che è la situazione di una delegazione ormai diventata di frontiera dove, negli ultimi 15 anni, gli appartamenti e i negozi una volta abitati dai genovesi hanno lasciato il passo alle famiglie che arrivano da Ecuador, Santo Domingo, Venezuela, Ucraina, Tunisia, Marocco e Cina. Un miscuglio di lingue ed etnie che ha messo in minoranza gli italiani, ormai pochi rimasti a vivere tra via Carlo Rolando e via Walter Fillak: quasi una enclave all’interno di una torre di Babele che ha portato delinquenza e insicurezza, violenza e degrado. «Chi può se ne va e se potessi me andrei anche io» racconta Marco che gestisce il bar che fondò suo padre all’inizio degli anni ’50. Per anni, a causa di una discoteca latino americana chiusa di recente dopo gravi episodi di violenza, era anche costretto ad alzare le saracinesche due ore dopo il suo orario e, per evitare che il locale venisse preso d’assalto, ha preferito non vendere bottiglie di birra oltre una certa dimensione e liquori particolarmente graditi ai latinos: «Ho avuto qualche rissa nel locale e li ho allontanati: ho fatto una scelta antieconomica ma di responsabilità - racconta -. Preferisco lavorare con gli anziani che rimangono, quelli che resistono in quello che ormai è un ghetto». C’è anche chi il Campasso lo ama e da qui per scelta preferisce non andarsene: «Nel mio palazzo ci sono sette appartamenti in vendita - racconta Luigi, 43 anni operaio -. Sono italiani che non resistono agli schiamazzi notturni e lasciano il quartiere. Io il Campasso ce l’ho tatuato addosso e non voglio cederlo ad altri che non lo apprezzano».
Ma il quartiere dal venerdì alla domenica diventa pericoloso nelle ore notturne, quando si alzano le serrande delle discoteche vestiti da circoli culturali dove sui ritrovano le comunità sudamericane così come le bottiglierie che fanno affari d’oro. Fiumi di birra e scazzottate continue, liti furibonde, pisciate per strada e un caos totale che non permette a chi vuole di riposare. Superato il limite della tollerabilità e il ritornello che si ascolta è lo stesso: «Noi genovesi stiamo subendo una situazione di razzismo rovesciato: non ci rispettano e vogliono imporre il loro modo di vivere privo di regole». La gente si lamenta per la poca presenza notturna delle forze dell’ordine e qualcuno benedice gli alpini che si dedicano con i finanzieri a qualche ronda notturna.
Passeggiando per via Fillak le saracinesche con insegne e personale italiano si contano sulle dita di una mano: la gastronomia, un macellaio, il bar, un negozio di accessori per auto e moto e un ferramenta. Il resto sono trattorie dominicane, macellerie islamiche, kebab, fruttivendoli gestite da nordafricani, cineserie e anche il barbiere («Anoir») non ha l’aspetto italiano. Poi c’è l’agenzia immobiliare con l’insegna «Casa Latina- Agencia Immobiliaria» e richiami in vetrina all’Ecuador. Dentro però la sorpresa è trovare Antonio, italiano, che per scelta ha deciso di convertire le insegne della sua filiale: «La clientela che abbiamo è prevalentemente non italiana - spiega -. Abbiamo deciso di avvicinarci ai nostri potenziali clienti e ho una socia sudamericana che mi aiuta con lo spagnolo: tutti pagano puntualmente, molti in contanti altri attraverso mutui. Acquistano l’appartamento e poi, ai lavori di ristrutturazione, provvedono da soli».
Al Campasso, però, dopo le dieci di sera uscire è davvero pericoloso.

Lo scorso venerdì sera un gruppo di dominicani litigava in via Rolando lanciandosi bottiglie dalla finestra al terzo piano e sono episodi all’ordine del giorno: «Per questo - racconta Nuiz - per i miei figli sogno di tornare nel mio Paese. Se siamo qui è perché là la scuola costa troppo: devi pagare l’iscrizione e le uniformi, i libri e i quaderni. Qui no, è più conveniente stare in Italia per crescere la famiglia».

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