I tempi cambiano, le canzoni di protesta no. Siamo ancora fermi a quelle memorabili, contestate eppure importanti che dagli anni Sessanta fino ai Novanta hanno scatenato discussioni e applausi, fatto indignare o commuovere e comunque hanno fotografato l'evoluzione e i disagi di un'epoca. Non ci sono più i «minima immoralia» di Battiato o la feroce radiografia di Storia di un impiegato di De André e i «polli d'allevamento» di Giorgio Gaber ora si trovano più che altro nelle filiere del pop. Oggi la protesta gira al largo dalla canzone d'autore, anzi ne è quasi terrorizzata. Per carità, non è un lamento nostalgico da vecchi tromboni del tipo «Guccini comunque era meglio». È lo screenshot di questi anni musicali, specialmente italiani.
Se negli Stati Uniti un artista multiplatino come John Legend trova la forza di dedicare un brano (Preach) a chi è stato azzoppato da errori del sistema giudiziario penale americano, qui la nuova canzone di protesta è più che altro circoscritta alle nicchie e molto distante dal mainstream.
A parte eccezioni come Frankie Hi-Nrg o Caparezza, capaci di mescolare musicalità, rime e accuse, nel complesso c'è una tendenza a circoscrivere le canzoni al proprio minuscolo orticello oppure a celebrare status symbol e luoghi comuni. È una scherzosa, talvolta parodistica, teatralizzazione della vita o, meglio, di ciò che si pensa essere la vita degli altri, senza riferimenti né discese in ciò che dovrebbe essere la natura della canzone popolare: ossia scoperchiare contraddizioni oppure rasserenare orizzonti nebulosi. In qualche modo, la musica popular si è sterilizzata o, quantomeno, anestetizzata e l'incedere forsennato delle rime (rap e trap) rimane generalmente molto lontano dall'abbracciare argomenti socialmente impegnati. Sarà che il flusso inesorabile dei social appiattisce qualsiasi discorso a lungo termine. Oppure che l'enfasi ideologica si è lentamente asciugata, perdendo ogni capacità attrattiva sui giovani artisti, chissà.
In poche parole, l'interesse di tutti non interessa a nessuno e quindi pochi lo inseriscono nelle proprie canzoni.
E non è un rimpianto del bel tempo che fu. Tante canzoni, specialmente negli anni Settanta, si sono rivelate soltanto autentici cavalli propagandistici e, come tali, destinati a rompere il fiato in poco tempo. In fondo, le canzoni elettorali si chiudono quando si aprono le urne.
Però ci sono stati autentici capolavori che hanno dato uno scossone pur risultando di rara raffinatezza analitica come i brani di Giorgio Gaber o quelli di De André. Sono entrati, insomma, nel dibattito seguendo quanto scrisse Pasolini: «Poiché sono uno scrittore, scrivo in polemica».
Oggi è sempre polemica, ma spicciola, e le «battaglie» durano dal mattino alla sera, secondo il ritmo inesorabile scandito dai social. Anzi, sono proprio i social che, nel bene e soprattutto nel male, hanno assorbito l'urgenza polemica una volta sublimata dalle canzoni e l'hanno annacquata con il gossip più volatile. In sostanza, le urla più lancinanti di quasi tutti riguardano lo strapotere dei selfie o l'arroganza dei followers. E se gruppi di nicchia come Il Teatro degli Orrori nel 2015 sono addirittura arrivati a scrivere una lettera aperta al Pd peraltro ancora attuale (Il lungo sonno), per il resto la musica d'autore è ripiegata su se stessa (i molti nuovi cantautori) oppure meno veemente nei testi (quasi tutti i rapper). Domina insomma il disimpegno e non è necessariamente una critica. Semplicemente, forse inevitabilmente, la musica ha rinunciato alla propria funzione sociale diventando la colonna sonora del tempo libero più che l'urlo di protesta che talvolta è stata. Certo, se la colonna sonora è quella data da gruppi come la Dark Polo Gang, con refrain e battute di pecoreccia goliardia, il quadro è sconfortante.
È una «vacatio legis» probabilmente transitoria che ha depotenziato anche gruppi all'apparenza combattivi come Lo Stato Sociale e non diffonde ottimismo perché è chiaro che, se il rock non sta molto bene, la canzone impegnata è quantomeno in rianimazione.
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