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Capello: «Non farò il dirigente il calcio è pieno di cose futili»

«Ho proposto all’Uefa di tenere un vice dall’altra parte del campo»

C’è una sola cosa stonata: una spruzzata d’acqua nel bicchiere di Dolcetto di Ovada. Per il resto Fabio Capello è un friulano bisiaco di quelli veraci e tosti, con gli spigoli al posto giusto, senza riverenze o carezze per chi gli sta davanti: «Non ho amici perché non mi interessa averne, nel calcio ovviamente. Amo la vita per gli interessi che questa mi offre, la mia famiglia, l’arte, la pesca, il mare (ieri era a Trapani per la coppa America, ndr), i viaggi». Il solito, abbondante, come le squadre sue, dovunque e comunque don Fabio si esprima, Italia o Spagna, Roma o Milano, Madrid o Torino. Questo dice il suo passaporto che anche passe par tout, «cossa ga vinto?» mormorava Nereo Rocco quando voleva demolire il collega rampante del momento che oltre a non aver fatto gavetta godeva già di favori e appoggi dalla stampa, oltre che dai club. Capello propone una smorfia di sorriso che, nel caso suo, è già una bella notizia. «L’importante xe ciacolàr e quanto i ciacola!», il tecnico di Pieris ricorda le parole di Rocco, stavolta con la nostalgia della voce. Non è il caso di parlare del passato remoto, Capello va spiccio, osserva un regime alimentare clamoroso, la bionda Maria titolare del ristorante Urbani, approdo degli juventini, non ha bisogno di inventarsi un menù, è già tutto pronto e fatto, Capello è sciolto: «Mancando molti giocatori per gli impegni delle nazionali finalmente il massaggiatore si è potuto occupare di me, finalmente lo ridico».
Quarantaquattro partite dopo, sempre in testa, da quando è qui a Torino, la dieta è strettissima anche in campo: «Oggi abbiamo autorità e autorevolezza, determinazione. L’anno scorso nella sfortuna di molti contrattempi, dico i guai fisici di Trezeguet, Del Piero, Nedved e degli altri, abbiamo avuto la buona sorte di restare in piedi, di lavorare profondamente per arrivare fino in fondo. I risultati ottenuti hanno accentuato le nostre convinzioni».
Nessuna novità, si potrebbe dedurre, tutto prevedibile e previsto. Già in passato si erano respirati gli stessi fumi: «Al Milan presi in mano un gruppo che qualcuno aveva definito cotto, finito, bollito (le macerie, secondo Arrigo Sacchi, ndr). A Madrid raccolsi una squadra che non si era nemmeno qualificata per l’Uefa e che doveva fare i conti con il Barcellona di Ronaldo e di Figo al top della loro carriera. A Roma fu diverso, perché c’era da costruire una squadra e mi sembra che la Roma abbia ottenuto risultati importanti. Qui a Torino abbiamo analizzato i pro e i contro e siamo intervenuti».
I pro e i contro di che cosa?
«I numeri parlavano chiaro, l’attacco era tra i migliori del campionato, la difesa invece aveva qualche problema, anzi era da metà classifica. Quindi siamo intervenuti sulla difesa e sul centrocampo»
E la famosa mentalità alla Capello?
«No, questo ambiente ha la stessa mentalità da sempre, non ha mutato i suoi connotati con il passare del tempo. Il testimone è stato trasmesso tra i vari componenti della famiglia Agnelli, restando la matrice immutata. In questi anni gli attuali dirigenti hanno dimostrato una grande perizia, hanno raccolto quel testimone mentre i giovani eredi della famiglia si stanno preparando».
Un gruppo, un ambito totalmente diversi da altri da lei frequentati?
«No, il Milan ha moltissime analogie con la Juventus, come organizzazione, come comportamenti, come filosofia. Qui ho tre interlocutori, al Milan ne avevo due».
A proposito degli interlocutori della Juventus. È cambiata la sua opinione nei loro confronti? A Roma ne aveva dette di tutto.
«Quando indosso una maglia cerco di mettere dei cunei, degli ostacoli tra gli avversari, lo fanno gli altri con me».
Ma a Roma forse è andato oltre il previsto, dico delle dichiarazioni. Non ha rimproveri da muoversi?
«Forse ho esagerato nella polemica contro gli arbitri, anche perché non è servita a nulla. Ma è vero anche che dopo hanno ammesso che avevamo ragione, dopo però».
Torniamo alla triade: Moggi?
«Moggi è molto maturato, tra virgolette».
In che senso?
«Che l’avevo conosciuto qui a Torino, quando ero calciatore e lui era il responsabile del settore giovanile».
Giraudo?
«È un grande amministratore, sa di calcio e sa di numeri».
Bettega?
«Con Bettega ci conosciamo da sempre, dialoghiamo».
E Capello come è cambiato?
«Esperienza, un sostantivo nel quale sono racchiuse molte risposte. L’esperienza riguarda anche il carattere».
Che era ed è rimasto duro, scontroso e antipatico.
«Non mi interessano le cose futili di cui il mondo del calcio è pieno; superficialità anche nel vostro settore, molti parlano, scrivono senza documentarsi, è la cosa che mi fa arrabbiare moltissimo».
Proviamo a documentarci, è vero che è stato lei a proporsi alla Juventus?
«Falso, questo è stato un errore di stampa, un virgolettato in un sottotitolo che non corrisponde al testo. Se lei allude all’intervista di Giraudo se la vada a rileggere. Le cose stavano e stanno diversamente. La Juventus, su desiderio espresso dal dottor Umberto Agnelli, mi contattò e trovammo l’accordo».
Torno alle cose di oggi. Chi l’ha sorpresa dopo sei giornate?
«Terlizzi del Palermo. E Bonazzoli della Sampdoria».
A livello internazionale?
«Messi e poi Giggs, un grande ritorno per uno che è stato da sempre il mio pallino».
Che pensa degli allenatori che propongono il calciatore con l’auricolare, Luxemburgo lo ha fatto con Raul a Madrid.
«Esperimenti. Mi piacerebbe invece che ogni allenatore avesse un proprio collaboratore dalla parte opposta del campo, per dare e ricevere informazioni, anche sugli infortunati. Presenterò questa idea alla prossima riunione Uefa».
Considerati i contratti a scadenza di alcuni componenti della triade, si è immaginato dirigente?
«Ho già occupato quel ruolo, a Milano. Quando a sera ritornavo a casa avevo bisogno di andare a correre per scaricare la tensione dunque mi serve il prato, del campo, del profumo dell’erba. La scrivania è pesante».
Ibrahimovic e Vieira, due scommesse tutte sue.
«Non è esatto. Ibrahimovic lo seguivo da almeno tre anni, ha capacità eccezionali, ha soltanto bisogno di maturare. Vieira, invece, lo conoscevo bene, non fui io a mandarlo via dal Milan, sia chiaro, ma era anche troppo giovane, aveva bisogno di altre esperienze, non era ancora pronto per una grande squadra».
Vieira ha detto che nel nostro campionato c’è meno fantasia che in Inghilterra.
«Quando gli spazi sono più ampi è possibile lasciar libera la fantasia. Qui da noi si gioca nello stretto, sempre. Oggi sono necessari fisico, tecnica, velocità».
Dunque i campioni della sua generazione, da Rivera a Mazzola a Riva incontrerebbero difficoltà.
«No, potrebbero tutti giocare da campioni perché si allenerebbero con i metodi attuali».
Anche Fabio Capello, dopo allenamento e massaggio ma senza l’acqua nel vino.

Mandi.

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