«Oggi non si vede niente/ Che foschia/ un velo di foschia/ malgrado il vento/ Un sudario di ipocrisia/ condivisa/ da tutti». La notte non è ancora calata a sciogliere nel buio quella cappa che avvolge la costa nordafricana, ma Bettino Craxi la aspetta alla finestra della sua magione, tutta luce e tende bianche, già malato e accudito in poltrona a rotelle dal suo segretario, ex portiere all’hotel Raphael. È una situazione tragica, quasi apocalittica. Protagonista, un gigante perdente. Uno statista detronizzato. Un pirata carismatico, intriso di peccato. Impastato di malaffare. Quasi un ladrone biblico. Però, tutt’altro che addomesticato o riconciliato dal cristianesimo. Anzi, ancor più aspro, rabbioso, amareggiato. Il suo nemico numero uno è l’ipocrisia, quel velo di falsità che, dal suo esilio, Craxi non esita a strappare, scagliandosi contro le varie caste che su quel costume campano - e campano tuttora - a dispetto suo, presunto unico capro espiatorio del sistema.
Tutto avviene in Una notte in Tunisia di Vitaliano Trevisan (Einaudi, pagg. 106, euro 10,50), in questi giorni anche a teatro (fino a domenica prossima al Franco Parenti di Milano) per la regia di Andrée Ruth Shammah e l’interpretazione di Alessandro Haber nel ruolo di X, appunto Craxi. Quattro scene con quattro personaggi, la moglie Elisabetta e il fratello XX che ruotano attorno a lui e il suo attendente. Niente teatro civile, niente denuncia da docu-fiction, «sottoprodotti che - scrive in una nota finale l’autore - rendono pessimo servizio sia alla storia, in tutti i sensi della parola, sia all’arte della narrazione. E poi, noi non narriamo: mettiamo in scena dei caratteri».
Dunque, un dramma esistenziale che, nelle atmosfere, ricorda quello, tratteggiato da Simenon in Il presidente, di Georges Clemenceau, ex premier francese autoconfinatosi agli Ebergues, sulla costa normanna. In faccia alla foschia che sale dal Mediterraneo, Trevisan dipana invece una tragedia della nostra storia recente, frettolosamente archiviata sotto l’intestazione «Unico vero colpevole». E che di rapida rimozione si sia trattato lo dimostrano anche i tentativi di revisione che di tanto in tanto provengono pure da sinistra, Piero Fassino e Luciano Violante in testa. Non di riabilitazione giudiziaria, né di ripulitura morale, c’è bisogno. Ma di confronto con una stagione civile, con una temperie politica, pubblica, storica. Uno sforzo tanto più utile ora che si torna a parlare di monetine e proteste di piazza, di potere dei giudici e corruzione politica, di esili (o latitanze?) dorati e Tunisia. E i paralleli, giusti e pretestuosi, si sprecano.
Trascorsi diciassette anni dalla fuga e undici dalla morte dell’ex leader socialista, lo scenario è di poco cambiato. Così, in controluce, negli identikit abrasivi dell’animale ferito e in cattività s’intravedono i protagonisti di allora, gli stessi di oggi. Di Pietro, per esempio: «natura mediocre», «contadino inurbato», «niente più che uno zelante funzionario». Oppure Gino Strada, che diventa Gino Piazza: «Un nome da cabarettista/ da orchestra di liscio/ Gino Piazza e i chirurghi di guerra/ Questi santi laici/ non c’è di peggio». Ma anche il premier attuale: «Il popolo non ama affatto le cose semplici/ dirette/ né il vero/ né il semplice/ che uno sia Presidente del Consiglio/ o saltimbanco/ deve sempre promettere l’impossibile». Ancor più feroci, nella loro rassegnazione, le invettive anti-caste nelle quali trapela lo spirito iconoclasta dell’autore. «Ci sono giorni in cui la stampa/ appare esattamente per quello che è/ un’immensa macchina di produzione della stupidità umana». Oppure: «L’uomo che/ passata una certa età/ dopo certe esperienze/ crede ancora nella giustizia degli uomini/ nella giustizia delle cose/ è un gran farabutto». Ancora: «I registi in particolare/ che sono gli artisti più cosiddetti di tutti/ Sempre a chiedere soldi/ sempre a chiedere/ e nessuna riconoscenza».
Ma dopo la denuncia, nel suo finale di partita il signor X è costretto all’autocoscienza se non proprio all’autocritica. E a riconoscere che «un uomo politico che va in pensione/ è un uomo politico finito/ Chi non è morto è costretto a nascondersi/ o a inventarsi un lavoro nuovo/ Se resta in politica/ deve venire a patti con il diavolo». Perché l’organismo dello Stato è in piena metastasi, tanto che «è plausibile pensare non a un attacco dall’esterno, ma piuttosto a un’evoluzione dall’interno». E perciò quando si inizia a intervenire è troppo tardi perché «ci sono processi di necrosi/ giunti a uno stadio così avanzato/ che l’intervento chirurgico è inutile/ un perverso esercizio di stile».
Infine, l’ultimo onore che Trevisan concede al suo protagonista. L’orgoglio stoico di non farsi umiliare pubblicamente. Di non scendere a compromessi. Di non lasciarsi processare magari facendo dei nomi per conquistare, come i pentiti di mafia o del terrorismo, una vita più comoda.
Una lapide. La resa.
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