
Tra Caltagirone e Piazza Armerina, in una zona sospesa tra il mare e la sughereta di Niscemi, la tenuta Feudi del Pisciotto racconta una Sicilia che si lascia attraversare dal tempo ma non lo subisce. Qui, in Val di Noto, la viticoltura ha radici antiche e uno sguardo puntato sul futuro. L’azienda fa parte del gruppo Domini Castellare di Castellina, che ha il suo cuore in Toscana, e si estende su 49 ettari di vigneti fino a 300 metri sul livello del mare, coltivati con attenzione alla sostenibilità e alla biodiversità.

Fulcro della produzione è l’antico palmento, oggi convertito in cantina all’avanguardia, dove tecnologia e tradizione convivono. Accanto, il Baglio del Settecento ospita un Wine Relais con 15 camere, un ristorante fine dining, Il Palmento di Feudi, e una spa ispirata alla vinoterapia: il vino, qui, non si beve soltanto, si vive.

L’identità di Feudi del Pisciotto affonda le radici nei vitigni autoctoni della Sicilia – Nero d’Avola, Grillo, Frappato, Catarratto – con l’ambizione di interpretarli in chiave contemporanea. Da questa filosofia nascono due nuove linee: Colori di Sicilia e I Putti del Serpotta. La prima comprende quattro monovarietali freschi e immediati, pensati per un pubblico giovane e per la ristorazione informale. La seconda è una linea premium di tre DOC Sicilia Superiore e un Cerasuolo di Vittoria DOCG, con etichette ispirate agli stucchi barocchi dell’artista seicentesco Giacomo Serpotta. In entrambi i casi, la Sicilia non è solo materia prima ma anche forma estetica: le etichette, curate e narrative, sono un omaggio all’arte isolana.

Il catalogo è completato da vini ormai storici per l’azienda: L’Eterno, Pinot Nero in purezza nato da un’intuizione dell’enologo Giacomo Tachis; Moro di Testa, blend di Syrah e Nero d’Avola; Nero d’Avola Versace, selezionato da Wine Spectator tra i migliori 100 vini del mondo; Alaziza, un bianco da Chardonnay e Viognier; Davolarosa, spumante rosé da Nero d’Avola; e Tirsat, l’unico vino di Gurra di Mare, l’altra azienda del gruppo a Menfi, da vigne a pochi metri dalla spiaggia di Porto Palo.
Ma è proprio a Giacomo Tachis che Feudi del Pisciotto ha voluto dedicare una delle sue etichette più personali: il Passito Tachis. Nessuno più di lui infatti ha creduto nel potenziale della Sicilia vinicola. E forse nessuno ha osato di più. Quando Paolo Panerai e Alessandro Cellai gli proposero l’idea di un passito da Zibibbo, il grande enologo oppose un secco diniego. “Ma assolutamente no”, disse, “se volete fare un grande passito in Sicilia dovete piantare Semillon e Gewürztraminer”. La luce del sole e l’umore della terra, secondo la lezione di Galileo Galilei, bastavano. Ma per domare l’eccesso di calore serviva anche un vitigno “renano”.
Nasce così un passito anomalo, pensato non solo per il fine pasto ma per accompagnare un intero menu. Un vino che rompe gli schemi e affonda nella visione radicale di Tachis, sempre pronto a sfidare i dogmi enologici. La scelta dei vitigni – insoliti per latitudini siciliane – testimonia la convinzione che l’Isola, con le sue condizioni estreme ma equilibrate, possa accogliere tutto. Anche ciò che sembra distante per tradizione o geografia. Dietro il Passito Tachis c’è anche un legame personale profondo. Cellai, che ne ha raccolto l’eredità professionale, continua a curare la vigna personale di Tachis a San Casciano, oggi di proprietà della figlia Ilaria. È stato proprio con il suo consenso che l’azienda ha voluto dedicare al professore questa bottiglia, come segno di gratitudine e riconoscenza.
“Grazie Professore”, dice Panerai, e non c’è retorica. Solo il riconoscimento di un’intuizione che ha portato alla nascita di un vino fuori dagli schemi. Un passito che, come tutta l’identità di Feudi del Pisciotto, non si accontenta di ripetere, ma preferisce interpretare.
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