Per capire un popolo si deve studiare il rapporto tra la politica e gli eserciti

La forza e la debolezza degli italiani al fronte è figlia delle molte vicissitudini della Penisola

Per capire un popolo si deve studiare il rapporto tra la politica e gli eserciti

La resurrezione spirituale italiana che prende il nome di Risorgimento, iniziatasi nel secolo XVIII entro il grande movimento d'idee d'Europa e passata dietro il decisivo impulso della Rivoluzione francese attraverso le grandi esperienze politiche del periodo repubblicano e napoleonico, portò al compimento dell'unità italiana attraverso una serie di cospirazioni, d'insurrezioni e di guerre. In esse gl'Italiani mostrarono le loro virtù e anche le loro manchevolezze: l'Italia non ha avuto infatti una lunga insurrezione perseguita con ferrea tenacia per anni e anni come quella delle colonie inglesi d'America, o della Spagna contro Napoleone, o della Grecia contro l'Impero ottomano; e neppure grandi guerre vittoriose come la Prussia contro l'Austria e contro la Francia. Ad onta di ciò, le guerre italiane vantano episodi gloriosi, e le diverse e ripetute insurrezioni rappresentano la manifestazione più luminosa dell'eroismo e della capacità di sacrificio del popolo italiano. La stessa serie dei piccoli tentativi falliti e pur sempre rinnovati rivela il non venire mai meno di giovani di disperata volontà d'azione e d'indomita tenacia. Tutta questa attività è inoltre accompagnata e seguita da un movimento di pensiero e da una letteratura di carattere politico veramente notevole; non solo, ma anche da una trattazione teorica (fin qui troppo obliata o non saputa abbastanza valutare) di carattere militare nel più ampio senso, volta cioè a studiare le caratteristiche e le esigenze della guerra regolare, ma soprattutto il problema d'utilizzare le grandi forze vive della nazione, sia con gli eserciti di riservisti, sia con l'apporto delle guardie nazionali, sia infine con la grande insurrezione popolare e la guerra di bande; e a porre di fronte guerra regolare e guerra insurrezionale. Ché, se era difficile per i patrioti evocare il demone della rivoluzione e richiamare e indirizzare le forze occulte dell'intera nazione, sarebbe poi divenuto oltremodo arduo anche per i capi degli eserciti regolari calcolare in termini strategici il valore e le incognite dell'azione insurrezionale e, se avversari, far fronte a un nemico tanto nuovo e diverso. (...)

Guerra e insurrezione, infatti, sono pur sempre la manifestazione di forza attraverso la quale si attuano tanto spesso le maggiori conquiste della civiltà umana; e non vanno considerate soltanto (purché non si tratti di forme primordiali o degenerative) come manifestazione di forza bruta, bensì come il portato d'energie spirituali, affermazione di necessità politiche e sociali, capacità d'affrontare fatiche e pericoli, e spesso manifestazioni grandiose di spirito d'abnegazione. La guerra, infatti non è soltanto la politica continuata con altri mezzi, vale a dire la politica estera che sostituisce all'azione diplomatica la più rude azione degli eserciti; ma, come il Clausewitz lucidamente intuì, essa è l'espressione, quanto più volge verso la sua naturale forma, dello sforzo di tutto il Paese, d'ogni sua attività convogliata verso la grande lotta e l'alta meta. E la storia militare affonda le sue radici nella struttura economica, sociale e politica di uno Stato, e può essere un utile e forse necessario complemento alla storia politica. Milizia e guerra non sono però un epifenomeno dell'economia, né il loro studio una branca della sociologia o della politica: economia, politica e guerra sono simultanee manifestazioni di un unico più profondo processo.

Gli svolgimenti politici infatti modificano i sistemi di reclutamento e il progresso tecnico favorisce la riunione di masse e il loro spostamento, e fornisce armi sempre più perfezionate. Ma è pur sempre l'intelligenza dell'uomo di guerra che sceglie quanto il progresso tecnico gli offre per adattarlo ai suoi scopi, e a volte ne sollecita o provoca i perfezionamenti; e strategia e tattica, ossia movimento di masse e combattimento, non costituiscono solo un problema tecnico, di numero, di spazio, di tempo, ma sono nella loro intima sostanza arte, ossia intuito; ché l'azione di guerra è azione di uomini, che hanno passioni e desideri, coraggio e timore, necessità fisiche e morali; e, come disse e ripeté il Clausewitz, la guerra è solcata continuamente e in ogni senso da motivi di carattere morale, sui quali il calcolo matematico non può applicarsi. Per questo la storia militare ha un campo suo, che non è per nulla soltanto tecnico, e richiede, come ogni altra disciplina, preparazione e attitudine.

Uno studio delle vicende militari italiane nel secolo XIX, intese in questo modo, potrà aiutare a comprendere sempre meglio gli elementi di vita che l'Italia, divisa e lacera dopo tre secoli di servitù, conservava pur sempre in sé, e al tempo stesso le deficienze di educazione e preparazione politica e di sviluppo sociale che inceppavano fatalmente e limitavano gli sforzi dei patrioti. E da vari anni ero portato a indagare il carattere delle nostre rivoluzioni e le deficienze delle nostre guerre; e a studiare i nostri teorici, come tentassero di risolvere gli ardui problemi che loro si presentavano, quale fosse l'intrinseco valore del loro pensiero. Diversi miei successivi lavori sulle guerre del Risorgimento lo mostravano, come pure i saggi sulle opere dei nostri teorici della guerra e della rivoluzione, saggi che facevano seguito a miei precedenti studi su Orso degli Orsini, Diomede Carafa, sul Machiavelli, sul Montecuccoli e su Giuseppe Palmieri. Mi giunse perciò assai gradito l'invito dell'Editore Einaudi a continuare il lavoro e a presentarlo in forma sintetica in un'opera che abbracciasse le guerre e le insurrezioni del Risorgimento e il correlativo svolgimento del pensiero militare italiano. Cosi che si avesse un'esposizione critica della condotta di guerra e delle lotte insurrezionali, viste nel quadro dell'ambiente economico-sociale e politico. Guerre e insurrezioni, vale a dire lotte armate, continuo problema di forza e d'intelligenza direttiva.

Non ho inteso perciò occuparmi delle rivoluzioni pacifiche, come quelle dell'Italia centrale del 1859; né dell'intera serie dei piccoli tentativi falliti; e neppure delle lotte che non rientravano nell'obiettivo della libertà e della cacciata dello straniero, come il brigantaggio, forma di protesta dei contadini meridionali per la mancata soluzione del loro eterno problema.

La storia del Risorgimento italiano è da oltre 50 anni oggetto di revisione; non sarà male che si riveda anche il lato guerresco, fuori della frequente rappresentazione oleografica.

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