Capirossi: «Mi amano perché sono iellato come la gente comune»

Il pilota della Ducati in convalescenza a Montecarlo si confessa dopo il terribile incidente in Australia: «Un po’ di sfortuna fa bene: ti rende più umano»

Capirossi: «Mi amano perché sono iellato come la gente comune»

Benny Casadei Lucchi

Fino a pochi giorni fa aveva «un tubo piantato nel polmome», sono parole sue, di Loris Capirossi, perché suo è il copyright del dolore e dell’incidente, del miracolo e del lungo viaggio dall’Australia con quel tubo per compagno. Loris Capirossi all’inferno e ritorno. Questa è la sua vita a trecento all’ora, vita farcita talvolta da piccoli assaggi di paradiso. Paradiso in Giappone a metà settembre quando trionfò con la Ducati, paradiso in Malesia a fine mese quando concesse il bis; e inferno domenica in Australia. Il volo, le capriole a duecento all’ora e «il tubo nei polmoni» a drenare «il sangue versato in quella bolla dentro che sentivo muoversi e non capivo cosa fosse».
C’è il sole a Montecarlo, Loris passeggia per le vie di Fontvielle come un ricco pensionato che si gode la fortuna di una vita. Passa un’auto, auto monegasca, quindi snob, silenziosa, sennò la Gendarmerie sai come s’incacchia. «Fa caldo, la luce splende» dice il giovane pensionato a tempo determinato, «in fondo che cosa posso volere di più?», domanda e si domanda. «Voglio correre», si risponde come Lucio Battisti voleva Anna. «Però i medici mi hanno detto che proprio non esiste, mi hanno detto pensi solo a riposarsi e usare bene quell’apparecchio per allenare i polmoni». Inspirare espirare, inspirare espirare.
«Sono triste e ho male, ma non per le ferite. Ho male al solo pensiero di dover guardare in tv un’altra gara. A Melbourne ho sofferto in ospedale davanti allo schermo ed ero mezzo intontito, con le fitte al torace e quel tubo... figuriamoci ora che sto bene, che vorrei montare in sella e i dottori mi dicono non se ne parla».
Pensionato monegasco a parte, se la sentirebbe davvero di montare e via?
«Certo, le mie condizioni sono notevolmente migliorate».
Non vorrà dire che anche in Australia, se non fosse stato per il drenaggio e il trauma pneumotoracico, sarebbe salito in moto?
«Assolutamente sì. Anche se il dolore era fortissimo. D’altra parte fa parte del mio lavoro».
A proposito: quanti incidenti ha avuto in carriera? Altri suoi colleghi, un nome a caso: Valentino Rossi, non hanno mai avuto guai, magari questo li aiuta ad osare di più.
«Sì, questo è vero, ma è vero anche che io oso comunque, nonostante conosca perfettamente il dolore. Ferite, fratture, lividi? Io, se posso, il limite lo supero; sono sempre stato conscio di andare spesso oltre. Stavolta me la sono vista davvero brutta, ma so che oltrepasserò di nuovo quel limite: amo talmente tanto andare in moto che non me ne frega niente. Sarei disposto a cadere e farmi male ancora».
Forse è per questo che dopo Rossi, è il motociclista più amato.
«La gente sa che ci provo sempre e che sono pure sfigato, come tante persone normali. Così il pubblico s’immedesima. Per loro rappresento il pilota della porta accanto».
Un bilancio: 15 anni di corse, più fortunato o più iellato?
«Un po’ di sfiga fa sempre piacere portarsela dietro perché ti rende umano; però sento di essere comunque un privilegiato perché sono riuscito a fare sempre tutto ciò che volevo: ho vinto mondiali, ho vinto in tutte le classi, per cui mi va bene così».
Quando dice che lei ci prova sempre, che cosa risponde sua moglie?
«In ospedale a Melbourne mi è stata sempre vicina, non usciva neppure per mangiare. Questo aiuta a riprendersi prima degli altri».
Che fa, non risponde?
«Ma no, mia moglie sa benissimo quanto amo questo sport, per cui spesso vorrebbe dire qualcosa su ciò che faccio però si tira indietro, si frena. Sa quanto sono testardo; e poi ha capito di aver sposato un uomo con una soglia del dolore molto alta. Sopporto fratture, ferite e traumi meglio degli altri».
Scherza o parla con cognizione di causa?
«Tutto vero: me l’hanno confermato i medici con cui, capirà, ho avuto spesso a che fare. Ma non vi siete accorti che sono stato uno dei pochissimi al mondo che con un drenaggio polmonare in corso ha preso l’aereo e si è fatto 30 ore di viaggio con un tubo nei polmoni? Ed ero su un volo di linea, con un medico solo accanto».
Perdoni: ma perché l’ha fatto? Ormai non è più in lotta per la piazza d’onore mondiale dietro Rossi.


«Perché a Valencia mi basterà correre... solo questo m’interessa. Se fossi rimasto in Australia avrei perso giorni preziosi».
Passa un’altra auto, è solo un brusio. «E poi qui c’è il sole, fa caldo, vede, in fondo sono anche fortunato».

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