«Capitalismi», per capirli val più la pratica della grammatica

Ci sono diverse ragioni per cui vale la pena leggere Capitalismi (Boroli, pagg. 172, euro 14) di Lodovico Festa e Giulio Sapelli. Si tratta di materia piuttosto dibattuta dalla saggistica di questi tempi. Crisi globale ed economia italiana 1929-2009 è il pretenzioso sottotitolo che dà il senso di un libro costruito nella forma di una conversazione a due.
Dicevamo che è un argomento su cui è fiorita un’ampia letteratura globale. Le crisi economiche almeno a questo servono: a rendere un po’ più ricchi e famosi gli specialisti, appunto, delle crisi. In genere, costoro rendono un servizio piuttosto inutile, dicono perché qualcosa è avvenuto, indicando proprio quelle cause che loro stessi non sono riusciti a individuare per tempo. Insomma gli allenatori del lunedì prosperano: specialisti nell’insegnare i propri errori. Ecco, Festa e Sapelli non si occupano di tutto ciò. Hanno costruito un agile testo con l’idea di mettere in mostra la conversazione tra due vecchi signori (mica tanto poi) che dibattano con tono disincantato di ciò che ci sta capitando. Non vi è alcuna arietta moralista, in questo libro. E tantomeno prescrittiva. Si registrano, banalmente, delle idee. Che incidentalmente, sembra, riguardano la vita economica di tutti noi. Il senso ideologico, se così vogliamo definirlo, è chiaro: «il mercato capitalistico ha meccanismi, regole, modelli, ma è stato costruito da soggetti umani: nazioni, classi, partiti, singole persone. Perciò per capirne i movimenti, non bastano le estrazioni della teoria».
I due dialoganti non si possono definire due smithiani, due economisti classici, due fan della mano invisibile. Al contrario la storia delle crisi, e la recente non fa eccezione, non può semplicemente essere ridotta al cattivo funzionamento di un meccanismo di mercato. Ci sono le strutture che hanno determinato il collasso, ci sono le persone, le banche, le istituzioni, e la politica. Sapelli, che ha un tratto maggiormente indulgente sugli affari degli uomini, così risponde a precisa domanda. «È auspicabile dunque una nuova grande stagione di giustizialismo - chiede Festa - questa volta contro i manager? No - risponde l’economista - il problema più che penale, di leggi o anche di nuove regole è quello della sanzione morale dei comportamenti indecenti». Sanzione morale evidentemente non è un’approssimazione del moralismo. È tutt’altro. «La dinamica Stato-Mercato è ben lontana dall’esaurire la dinamica di una società complessa - si legge nel libro -. E il ruolo della comunità? E quello dell’impresa. L’impresa rappresenta un elemento sostanzialmente di imperfezione del mercato, dove astrattamente i fattori essenziali dovrebbero incontrarsi senza intermediari». E ancora «riflettere sui processi politici di decision making ci consente di capire ciò che è successo e di comprendere come in genere le responsabilità sono molteplici». Più che dalla scuola di public choice, più che dalle analisi derivanti dalle scuole liberiste di Chicago, i due sembrano affascinati dalle asimmetrie informative di Minsky che ci portano a mercati solo apparentemente in equilibrio, ma naturalmente molto squilibrati.
È un libro politicamente scorretto. Si potrebbe sintetizzare: non è un libro obamiano. Anzi, si cerca addirittura di riconoscere un merito industriale alla gestione di Bush. Si contesta la società managerializzata, ma si sbertuccia l’angoscia antispeculativa (del tipo abolizione delle vendite borsistiche allo scoperto). Un capitolo a parte meriterebbe un tema, meno teorico ma forse più affascinante, di Capitalismi: le banche e il bancocentrismo. Per non rovinare la sorpresa al lettore basta forse pizzicare quelle righe riferite alla presunta bontà del modello bancario territoriale. «L’argomentazione che le banche legate al territorio siano intrinsecamente sane per la loro distanza dalla finanza globale mi sembra opinione inconsistente». E via andare con una serie di storie che sono sotto gli occhi di tutti.


Ecco: un libro che val la pena leggere per tante ragioni. Il filo rosso che lega le colte domande di Festa e le eterodosse risposte di Sapelli è la non convenzionalità dei due autori e una certa leggerezza che dà il senso di un libro che si è scritto da sé.

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