«Il capitalismo personale» è ottimista

In buona forma chi ha puntato sull’innovazione. Il caso del Barolo e delle vecchie «pensioni romagnole»

da Milano

Dall’osservatorio di Unicredit Banca il mondo della piccola impresa appare in costante evoluzione. Uno scenario che approfondiamo con Aldo Bonomi, direttore dell’istituto Aaster a cui si deve il rapporto, che al «capitalismo personale» ha dedicato un volume pubblicato da Einaudi.
Imprenditori e fiducia: che cosa c’è di nuovo?
«Un anno fa era soprattutto la grande impresa a sentirsi sotto stress, mentre quest’anno il meccanismo della selezione economica ha toccato il mare del capitalismo molecolare. Traducendo i numeri in immagine, in Italia abbiamo 3.500 imprese che ne controllano altre 135mila medie e piccole, come isole circondate da un arcipelago: intorno c’è il mare, cinque milioni di imprese che spesso coincidono con una sola persona. Ma la fiducia, al suo interno, segue correnti diverse».
In che modo?
«Il 52% di questo oceano, che va dall’artigiano alla piccola azienda, ha fiducia e il 48% no. I pessimisti sono gli imprenditori isolati, quelli che non hanno alcun legame con la filiera produttiva: mentre gli altri, capaci di mantenere i collegamenti con l’arcipelago delle aziende più importanti, guardano al futuro con occhi diversi. Certo, per farlo hanno dovuto puntare sull’innovazione: che non vuol dire necessariamente tecnologie ultramoderne o grandi numeri, può essere anche la scelta di un prodotto di nicchia».
Una strada che passa comunque attraverso l’accesso al credito.
«Infatti per la prima volta nei saloni dell’Abi si è parlato del capitalismo personale, basato appunto sulle persone e sulla loro capacità d’intraprendere. Quello più difficile da finanziare, perchè richiede alle banche un’attenzione fuori dai soliti schemi. Ma che consente anche di raggiungere risultati notevoli, e ne abbiamo esempi in tutti i settori, a cominciare dall’agricoltura».
Di che si tratta ?
«Siamo nelle Langhe, zona di tradizione vinicola. Le nuove norme impongono la rottamazione delle cantine, per adeguarle a standard più avanzati: grazie a un accordo tra Unicredito e Coldiretti, la filiera del Barolo può contare su un finanziamento da 100 milioni di euro. Un esempio di come fare squadra conviene. Ma ce ne sono altri».
Parliamo allora del turismo.
«Un classico: la Romagna. Qui il problema è la “rottamazione delle pensioncine”: un’offerta tradizionalmente abbondante ma ormai inadeguata. I vecchi alberghi a due stelle non attirano più nessuno, i nuovi turisti chiedono standard da tre stelle in su. Si impone quindi una riqualificazione radicale, e a questo gli imprenditori stanno lavorando con i comitati territoriali di Unicredito».
Il territorio è ancora una variabile fondamentale?
«Certamente, e lo dimostra il successo dei bond di distretto. Anziché finanziare una singola impresa, cioè, si finanzia un intero distretto produttivo, con la garanzia dei consorzi fidi. Un’idea recepita anche dalla Finanziaria, che ai distretti dedica un intero paragrafo, e che ha già dato risultati concreti grazie a Unicredito: 300 milioni a Vicenza e 500 nel Nordovest».
Ma vale per tutto il made in Italy?
«Un concetto che ormai viene sempre citato in contrapposizione a made in China, come dire la qualità contro la quantità. E se pensiamo che le nostre isole debbano competere con il neofordismo cinese, l’impresa è impossibile.

Ma noi possiamo diventare e rimanere leader nelle produzioni complesse, che sia la Ferrari o il Barolo. O magari quei materiali per le piste di atletica che un’impresa tra Alba e Cuneo esporta in Cina per le Olimpiadi».

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