Il recente romanzo di Gian Antonio Stella (Il maestro magro, Rizzoli, pagg. 315, euro 17) è come un treno che viaggia a forte andatura, mentre noi, dai finestrini, possiamo quasi magicamente assistere a situazioni e scorgere località diversissime fra loro, terre alluvionate, campagne confinanti con città invasive con i loro casermoni di periferia, anguste e ottuse comunità miserevolmente borghesi condominiali, feste paesane con fuochi dartificio sul far della sera, o lepisodio grottesco del fez fascista usato come vaso da notte, e delle camicie nere stese superfluamente ad asciugare subito dopo il 25 luglio 43, caduto Mussolini: e, guardando tutto ciò, possiamo indovinare gli interni domestici con le loro farse e le loro tragedie, e accorgerci di conoscere già quegli individui buffi e teneri, o spregevoli nella ristrettezza egoista delle loro menti, o ancora rozzi e inconsapevolmente crudeli con le «bestie» innocenti loro compagne di vita, poi uccise e divorate, divenendo così (per decisione di unimprobabile divinità malvagia e compiaciuta del Weltschmerz, cioè dellubiquo dolore del mondo) mezzo dellumana sopravvivenza.
Tutto ciò è, in breve, frutto dellestro sempre vigile ed energico dellAutore, cui però vorrei esprimere, oltre ad un convinto plauso, anche alcune riserve, innanzitutto sulla struttura della sua opera: il filo conduttore di essa è la storia damore fra Ines e Ariosto Aliquò, il maestro magro (che dà il titolo al libro: i «maestri magri» erano per legge dellimmediato dopoguerra, quegli insegnanti che, in zone disastrate, riuscissero a mettere insieme una classe di una ventina di analfabeti); ma a volte questo filo, pur collegando tra loro varie perle, sembra allentarsi e quasi sparire, lasciando tuttavia gustare con lo stesso diletto estetico dei bei racconti. Il romanzo, cioè sembra trasformarsi in una silloge, appunto di racconti. Il fatto poi che questi siano frutto più che di uninvenzione, di una ripresa di notizie e vicende riportate dalla stampa di ogni colore, magari frugando negli archivi dellepoca corrispondente, non guasta affatto, e al contrario, dà maggior forza realistica alla narrazione, resa ancora più efficace dalla vigorosa icasticità della scrittura, veloce, perspicua, priva di fronzoli, che è propria di Stella.
Una cosa apparentemente trascurabile (ma non per me, che ne sono stato un po deluso), proprio dello stile, anzi del lessico di questo libro, è luso eccessivo della parola bestia, di valore sia sostantivale, sia esclamativo, sia aggettivale («un freddo bestia», ad esempio). I latini - si scusi la deformazione professionale - avevano tre vocaboli in proposito: animal, belua, bestia, il primo neutro, il secondo per gli animali in genere, il terzo per le belve. Perché Stella insiste tanto su quel brutale vocabolo, bestia, fino a usarlo in diversi contesti narrativi, quale, solo per citare un esempio, linizio del capitolo-racconto Torino 1960: pena di morte al gallo Ercolino? Ad bestias, gridava il popolaccio nei circenses, esortando gli organizzatori di quel truce spettacolo a far divorare dalle belve i criminali condannati e i perseguitati cristiani.
Gian Antonio Stella è una delle migliori firme del giornalismo italiano, e questo è il suo primo romanzo. Non mi sembra che questo fatto rappresenti una contraddizione, come vorrebbe dimostrare la recente oziosa polemica a proposito dei giornalisti che scrivono romanzi, e dei narratori che si dedicano al giornalismo.
E allora i medici o gli ingegneri che scrivono romanzi (ad esempio Tobino e Gadda)? Il grande scrittore americano Ring Lardner non era un giornalista sportivo e un cronista mondano? E i nostri Moravia e Pasolini, non erano anche prestigiosi giornalisti o addirittura «inviati speciali», come Parise con i suoi bellissimi reportage dal Vietnam? E Carlo Rossella, giornalista televisivo a tempo pieno, non è anche un valido narratore, come prova il suo libro recente di racconti Tango?
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