Caraibi, 11 cadaveri sulla nave fantasma

Erano partiti in 37 e sono morti tutti tra sofferenze atroci

Luciano Gulli

La storia è orrenda. Dunque chi è debole di stomaco se ne tenga lontano. Perché qui si parla di naufraghi, in pieno Oceano Atlantico, trasformati in mummie. Di morti per trombosi o blocco renale, per infarto o per emorragia cerebrale. O per uno di quei tanti altri accidenti che sconvolgono l’organismo di uno sventurato abbandonato per mesi in balia delle onde, quando il metabolismo va a pallino. E non c’è pane. E l’acqua, soprattutto, è finita da un pezzo. Morti di panico o di coltello, quando la follia e la disperazione prendono il sopravvento. Morti suicidi. O di paura, altri. Uccisi dall’atroce consapevolezza che morirai stasera, forse domani, ma certamente entro le prossime 24 ore. E che prima di spirare dovrai patire gli atroci tormenti che già hai spiato nei tuoi compagni di malasorte, quelli che avevano i tuoi stessi sintomi. Morti e poi gettati in mare dopo che avevano chiuso gli occhi per sempre.
È la storia di un viaggio della speranza. Uno di quei tanti viaggi su una carretta del mare che si trasformano in una spedizione all’inferno, con un biglietto di sola andata.
Erano partiti in 37. Venivano dal Senegal, dal Mali. Si erano imbarcati a Capo Verde, puntavano sul Brasile. O forse sulle Canarie, per poi balzare di lì fino in Spagna. Li hanno trovati, in 11, mummificati, dopo tre mesi in pieno oceano, a 70 miglia a est dell’isola di Barbados, uno dei paradisi caraibici. Gli altri 26 non c’erano più. Inghiottiti dal mare.
È stato un marinaio - era la fine di aprile, scrive il quotidiano spagnolo El País, che ieri pubblicava nelle sue pagine la storia - a vedere quel barcone di 8 metri, senza segni di vita a bordo, che se ne veniva scarrocciando verso la sua barca da pesca. Una delle mummie era a prua, un’altra a poppa. Uno era sdraiato sul motore in avaria. Uno era nella sua cuccetta. Un altro aveva un piede spezzato… Tutti rinsecchiti, rattrappiti, come se non ci fosse stato neppure un processo di putrefazione.
Dai documenti trovati a bordo, dalla scatole di sardine di fabbricazione marocchina (vuote) trovate nel cucinotto, e da una serie di altri piccoli indizi, la polizia di Barbados crede di aver ricostruito la vicenda con un discreto margine di verosimiglianza.
Partiti da Capo Verde, dunque. Un numero di telefono trovato nelle tasche di uno dei naufraghi (appartenente a un abbonato senegalese) ha consentito agli inquirenti di rintracciare uno dei parenti dello sventurato. Che ha confermato: sì, sognavano il Brasile. A prua, tranciato di netto, un cavo da rimorchio: come se fossero stati trainati per un pezzo da un vascello più grande. Poi, chissà, una motovedetta, un aereo da ricognizione della Marina spagnola. Il timore di essere intercettati e arrestati. Ed ecco che qualcuno dei pirati che stanno sulla barca davanti si sporge fuoribordo con un coltellaccio, e il cavo è tranciato di netto. E chi se ne frega della fine che faranno quegli altri.
Dice il capitano Tomás Gonzalez Sanchez Arana, della Marina spagnola, che il vascello fantasma dev’essere stato spinto fino a Barbados dalla corrente nordequatoriale, che lambisce appunto Capo Verde e poi fila a una velocità di 500 metri l’ora verso le coste del Brasile, oltre 5mila chilometri in direzione sud ovest.
Tra i documenti a bordo del vascello fantasma, la polizia di Barbados ha trovato le carte d’identità di 37 uomini originari del Mali e del Senegal, dollari ed euro, un biglietto aereo della Air Senegal, cordame, avanzi di pane ammuffito, lattine vuote di succo d’arancia e di ananas scadute da mesi e alcune latte (vuote anch’esse, ovviamente) di sardine in salsa piccante. Un alimento che deve aver innalzato la richiesta di liquidi da parte dell’organismo degli sventurati e di conseguenza accelerato la loro morte.
Quanto sarà durata l’agonia di questa povera gente? Dipende, rispondono i medici. Dipende dalle condizioni di salute iniziali dei singoli. In genere, i clandestini africani che arrivano fino alle coste spagnole hanno un’età compresa tra i 16 e i 40 anni. Sono in forma fisica soddisfacente e di certo non soffrono di infermità gravi. Il record di sopravvivenza ai naufragi nell’area delle isole Canarie è stato polverizzato più volte. Attualmente, il (non ambito) primato spetta a Salimata Sangare, Bubakare Magasa e ad altri quattro loro compagni di sventura.

I sei africani riuscirono a sopravvivere senza bere per 14 giorni in alto mare, nel febbraio del 2003, vedendo morire 12 loro compagni. Ma ci misero un mese - trascorso tra la vita e la morte - per recuperare alcune delle funzioni vitali più compromesse.

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