Roma

In carcere per errore, ora chiede giustizia

Alessia Marani

Due mesi di carcere, uno agli arresti domiciliari, sulle spalle una pesantissima accusa d’associazione a delinquere per avere finanziato - secondo i magistrati - la mala romana truffando istituti bancari e società finanziarie per cui, invece, era semplicemente un procacciatore di clienti. Assolto dopo sei anni con formula piena per essere completamente estraneo ai fatti, oggi Paolo Marcelli, 65 anni, vittima di un incredibile errore giudiziario, chiede il conto allo Stato: «Sono stato rovinato - dice - ho perso il lavoro, sono cominciati problemi familiari interminabili e ancora oggi rischio di perdere la casa per i debiti contratti. Non solo. Un mese prima del mio arresto, avevo avuto un principio d’infarto. Dopo essere stato sbattuto in galera le mie condizioni sanitarie sono peggiorate notevolmente. Ho subito sette interventi per l’inserimento di “molle” per la dilatazione delle arterie. Un lungo e doloroso calvario: ora chiedo che giustizia sia fatta fino in fondo».
La mattina del 22 novembre del 1987, uomini della squadra mobile romana con mandato della Procura, bussano a casa Marcelli, sulla via Casilina. «Stavo per andare al lavoro, lo ricordo come fosse oggi - racconta - quelli mi bloccano e mi portano in questura, a San Vitale. Mi lasciano tutto il giorno parcheggiato lì, fino a sera quando mi mettono le manette e mi portano a Regina Coeli. Solo dopo cinque giorni riesco a parlare con un avvocato. Resto dietro le sbarre per cinquanta giorni, di cui venti trascorsi in infermeria. Altri trenta me li faccio ai domiciliari. Nel frattempo comincia l’inferno: perdo il lavoro, i miei amici mi abbandonano, la mia famiglia viene emarginata. Allora la più piccola delle mie quattro figlie aveva 7 anni. Non sapevo come dare loro da mangiare». Marcelli pur di tirare a campare e nonostante lo stato di salute, in realtà, non glielo permettesse, finisce persino per lavorare in campagna, a giornata. «Anche mia moglie è stata costretta a trovarsi un impiego lasciando le bambine a casa - aggiunge -. D’altronde che avremmo dovuto fare? Diventare delinquenti sul serio? Nessuno, ormai, voleva avere più a che fare con uno che era stato in galera. Ma noi siamo sempre stati gente onesta. All’epoca avevo già da trent’anni rinnovato puntualmente il porto d’armi per un fucile da caccia e una pistola. Mai avuto problemi con la legge».
L’assoluzione per Marcelli arriva nel ’92. «Addirittura - sottolinea - durante il processo si verificò una situazione paradossale, per cui quelle stesse persone con cui io sarei entrato in “affari”, in aula, si chiedevano chi fossi in realtà e quale fosse il mio ruolo. Al giudice apparve finalmente chiara la mia estraneità totale alla vicenda. Ma io ero già nel baratro». Marcelli scopre che a metterlo nei guai furono due conversazioni telefoniche avute con uno degli indagati il 19 e il 20 novembre. «Quello voleva un prestito - conclude l’ex procacciatore - ma non ne aveva le credenziali e io neppure inoltrai la pratica. Ma tanto è bastato a cambiarmi l’esistenza».
Oggi, con l’aiuto del suo legale, l’avvocato Giacinto Canzona, Marcelli chiede di essere risarcito per l’ingiusta detenzione e, soprattutto, per la malattia. «Il diritto al lavoro e alla salute - spiega Canzona - sono imprescrittibili. Quest’uomo ha sofferto troppo e ingiustamente.

La legge deve riconoscerglielo».

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