MilanoLa cassa da morto arriva nella camera ardente sigillata. Forse un estremo gesto di pudore verso luomo che ha vissuto in sovraesposizione continua, oltre i confini della bruciatura. Solo i familiari, gli amici fidati e i suoi Sigilli, uomini e donne che hanno diviso con lui lavventura del San Raffaele, hanno potuto vedere il cadavere di don Luigi Verzè. Raccontano che il prete manager aveva «un aspetto sereno», «la sua espressione guascona e combattiva», perduta negli ultimi mesi di tribolazioni giudiziarie, arrivate dopo anni di eccessi debordanti e gloria controversa.
E poi cè Lina, la caposala che ne ha raccolto le ultime parole. Non una perpetua, ma uninfermiera al capezzale del sacerdote imprenditore della sanità, vestito per lultimo viaggio come al solito, senza abito talare, in completo blu, cravatta rossa e limmancabile croce allocchiello. «Lina, la mia caposala, è rimasta vicina a lui fino allultimo momento. Mi diceva di una grande serenità e contentezza, che è stato bello essergli accanto» racconta il professor Ottavio Alfieri, luomo che aveva la supervisione del cuore di don Verzè, primario della divisione di Cardiochirurgia del San Raffaele e docente di Cardiochirurgia allUniversità Vita e Salute.
Alfieri è sui gradini davanti al Ciborio, sotto la gigantesca cupola e la mastodontica statua di San Raffaele. La salma di don Verzè è appena partita in direzione di Illasi, il paesino in provincia di Verona in cui sono stati celebrati i suoi funerali. «Le sue ultime parole? Ha detto a Lina, sorridendo: sai che è arrivata la mia ora...». Il professor Alfieri è convinto: «È provvidenziale la sua morte serenissima in un momento difficile».
Don Luigi Verzè ha avuto una crisi cardiaca nella notte, è stato male nella sua cascina ed è stato subito trasportato in ospedale. Non ha mai perso conoscenza, è rimasto lucido, ha capito che era arrivata lora della morte.
Qualcuno è arrivato a ipotizzare che sia stato ucciso, proprio nel giorno dellapertura delle buste che avrebbero segnato il destino del San Raffaele. O aiutato ad andarsene. Il professor Alfieri, che ha seguito da vicino i tracciati capricciosi del suo cuore, risponde senza scomporsi. È uomo abituato a curare persone note, sa che le fole girano rapide. «Era molto malato al cuore. Ha avuto la prima crisi di scompenso cardiaco allinizio dellanno. E noi tutti dicevamo che non sarebbe sopravvissuto più di sei mesi o un anno. È riuscito a resistere un anno».
Alfieri abbandona i ricordi e guarda al futuro: «Speriamo in una soluzione che porti avanti lo spirito di don Verzè. Abbiamo sempre lavorato in libertà, la sua grandezza era non porre limiti, se cera bisogno di unapparecchiatura moderna, straordinaria».
Non è lunico a parlare di una morte che lo coglie nel momento migliore.
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