Caro ministro Galan sui Festival del cinema non fare il governatore

Il ministro ha ancora un cuore da governatore. Non si può chiedere a Giancarlo Galan di non sentirsi veneto. Lo capisci quando parla della Serenissima. È terra, acqua, laguna, dialetto, maschere, è qualcosa che ti porti dietro ovunque vai. Insomma, è il suo modo di essere italiano. Solo che nessuno aveva nostalgia di questa storia del cinema. Venezia o Roma? Il festival più antico e cinecittà, la guerra dei tappeti rossi, le star, i flash, quello viene da me, quell’altro lo prendiamo noi, Calatrava e Caracalla, l’orizzonte da Blade Runner di Marghera e il caos metaumano dell’Urbe. No, basta. Non è possibile che in questo cavolo di Paese tutto finisce a campanili e disfide geografiche. Quella di governatore è un’altra vita. Galan non ha cambiato idea. Lo sappiamo. Non vuole doppioni. Ma non spetta a lui contare i festival.
Meglio spiegarsi. Il ministero della Cultura non può essere solo un bancomat. I festival, anche quelli lussuosi del cinema, dovrebbero trovare i soldi da soli. È utopia. Ma è un modo per non rassegnarsi alla carità pubblica. Lo Stato magari interviene alla fine, come paracadute. Non può essere lo sponsor principale. Non è per grettezza d’animo. È l’illusione che le cose belle non abbiano bisogno di nulla. Si vendono da sole. Il segreto è questo: con la cultura si mangia. Bisogna vedere come. Quella che chiamiamo cultura è un moltiplicatore. È una magia. Fa bene agli affari, al turismo, regala alla merce anonima una storia, un passato, un fascino, quel qualcosa in più che ti rende più bello sul mercato. La cultura è anche un numero primo. È un valore che vale da solo, senza aggettivi, senza spiegazioni. Tutti quelli che vogliono fare un festival lo facciano. Tutti quelli che vogliono fare arte, teatro, musica, letteratura sono i benvenuti. Non c’è terra che morirà per troppo genio. L’unica cosa che non si può fare è fare i parassiti, i furbi, gli accattoni con la scusa della cultura. I professionisti dei finanziamenti pubblici sono una fabbrica dello spreco. Sono quelli che ogni anno campano di bandi e conoscenze. Sono sempre gli stessi, sacerdoti della messa culturale. È la carovana di giornalisti che sgomita in un posto in giuria. Sono quelli che si muovono nelle stanze del ministero come una processione di adepti, che sanno sempre a quale funzionario votarsi, perché conoscono le formule alchemiche per farsi sganciare quattrini. La prima cosa che un ministro della Cultura dovrebbe fare è ribaltare il suo ministero. Spostare da un’altra parte i cardinali della religione assistenziale. Quel ministero puzza di muffa. La cultura invece vive di piazza, di incroci, di dialogo, di progetti che rimbalzano da una stanza all’altra. Il ministero della Cultura dovrebbe attrarre investimenti e fare da mediatore tra il mondo e quel capitale umano e storico di cui l’Italia è ricca. Da Cicerone a Renzo Piano, da Spartaco ad Arlecchino abbiano una schiatta di testimoni eccezionali. Lo Stato può salvare Pompei, ma se ci pensate è assurdo che Pompei abbia bisogno di essere salvata. È come non saper vendere una bottiglia d’acqua nel deserto.

Non siamo pessimi commercianti, siamo assassini. È non dare da bere agli assetati. È per questo che non ha senso scegliere tra Roma e Venezia. La questione è un’altra: come si fa ad avere il sogno e la gloria e piangere miseria?

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