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Carolyn Carlson: Leone d’oro alla stella tra danza e jazz

La ballerina e coreografa ha ricevuto ieri alla Mostra il premio alla carriera

Franco Fayenz

da Venezia

È sempre bella Carolyn Carlson, agile e sottile come un giunco malgrado i suoi 63 anni compiuti sotto il segno dei Pesci (non si arrabbia se lo si dice: anzi ci guadagna, perché bisogna guardarla da due passi per scorgere qualche lieve traccia dell’età). Il primo dei Leoni d’Oro alla carriera istituiti, da quest’anno in poi, per le tre discipline della Biennale di Venezia (musica, danza, teatro), non poteva toccare che a lei nel settore della danza. Lo ha proposto il direttore artistico Ismael Ivo e lo ha accolto il Consiglio d’Amministrazione della Biennale presieduto da Davide Croff.
La consegna, salutata da uno scrosciante applauso, è avvenuta ieri sera durante uno spettacolo di balletto diviso in tre parti al Teatro alle Tese. Ecco la motivazione: «Per aver costruito in un tempo cronologicamente lungo, ma artisticamente e umanamente breve e intenso, un percorso artistico originale e capace di tratteggiare una calligrafia coreografica irripetibile, che ha saputo rinnovarsi negli anni senza mai perdere una delle sue più apprezzate qualità: la passione per la trasmissione di saperi tra generazioni; la generosità nel guardare e sostenere nuovi percorsi artistici nati dal suo gesto; l’entusiasmo nel saper cercare di avviare sempre nuovi progetti di danza».
Splendida danzatrice e coreografa, Carolyn è nata e cresciuta a Oakland, California, ma con l’impronta evidente dei genitori finlandesi. L’improvvisa manifestazione del suo genio avviene in Europa nel 1973 con Densité 21,5 all’Opéra di Parigi su musiche di Edgar Varèse, seguita da Wind, Water & Sand e da Untitled; ancor più, per un italiano, è d’obbligo conoscere i suoi allestimenti del primo periodo veneziano per il Teatro La Fenice (Undici Onde, Chalk Work, Blue Lady su musiche di René Aubry) e quelli più recenti per la Biennale, tra i quali il memorabile Writing on Water.
Ma c’è un altro aspetto meno noto dell’estetica coreografica di Caroline: un suo tratto essenziale, allo stesso livello dell’antitecnicismo, è la passione per il lavoro di gruppo e per l’improvvisazione che spiega i suoi sodalizi con grandi maestri del jazz e affini. Nel 1973 la Carlson incontra John Surman, profeta del jazz britannico con il quale collabora tuttora; poi, nel suo curriculum, si leggono i nomi di Barre Phillips, Joachim Kuhn, Michel Portal, Pat Metheny, Charlie Haden, Trilok Gurtu e Bob Dylan. Chiunque abbia avuto il privilegio di essere presente non ha più dimenticato la magica figura della donna che danza quasi incorporea sul palcoscenico, ed è capace di fare della poesia soltanto muovendo le dita o incrociando le braccia con gesti sinuosi e ondeggianti, al punto che perfino la musica, quantunque bella, passa a volte in secondo piano.
Citiamo, fra i tanti, due episodi. Nell’agosto 1989, nella Rocca Brancaleone di Ravenna, Caroline apparve inattesa, vestita di bianco sulla scena vuota e nera, sorgendo da una colonna tronca come Venere dalle onde. Tale fu la suggestione dei suoi movimenti, che John Surman uscì con il sassofono dalle quinte urlando «play, woman, play» (danza, donna, danza) e improvvisò con lei un ballo del tutto imprevisto. E poi, nel 1998, il finale straordinario di Dall’interno, musiche di Bob Dylan.

Caroline si materializza sospesa a mezz’aria fra gocce di pioggia che cadono, qualche metro più sotto, su una bambina. È il simbolo di un testamento, del passaggio del sapere. Ma Carolyn è ancora e sempre giovane: e la musica, che mette i brividi soltanto a ripensarla, è Forever Young.

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