nostro inviato allAquila
Ogni giorno, a qualunque ora, in qualsiasi angolo martoriato dellAquila, timbatti in ritratti indelebili quanto inimmaginabili solo una settimana fa. Non riesci a fare labitudine ai moribondi estratti dai detriti, alle bare bianche, alla parrocchia che barcolla e non crolla. Impossibile assuefarsi alle sirene, al tanfo di morte, alla caccia agli sciacalli. Ed è da stupidi pensare che lennesima scossa sia anche lultima, visto che ogni volta scappi via come la prima notte, sempre in cerca daria e spazi aperti. Cè sempre qualcosa che ti costringe a pensare, a fare i conti con te stesso. E ieri mattina il conto servito dal terremoto è arrivato dritto allo stomaco nel posto meno cerchiato dalle mappature dei sismologi: lungo lautostrada per allAquila. Pigiando sullacceleratore il pensiero per una volta non va ai moribondi, agli orfani, ai disastrati. Non indugia in quel coacervo di emozioni spesso difficili da raccontare. Spazia tra una musica alla radio e il panorama meraviglioso di questa terra sfortunata. Non hai la minima idea di cosa ti si sta per materializzare di fronte: un carro funebre, vuoto. E sin qui, amen. Scongiuri e niente più. Ma poi scorgi un altro carro, vuoto pure questo, che gli cammina davanti. E più in là un altro carro, un altro ancora, e ancora uno, e ancora, ancora carri vuoti, ancora. Ne contiamo fino a dieci, perché finiscono le dita. Ma in cinque minuti diventano trenta, quaranta, cinquanta, sessanta, settanta, ottanta. Non è possibile. Non credi a quel che vedi, e ti scopri a contare senza sosta. Quando arrivi a cento pensi a cento persone morte. Che sono tante. Tantissime. Troppe. E quando credi, o pensi, che la conta è terminata, ti ricordi che il bollettino della prefettura ne elenca quasi trecento. Così non ti sorprendi quando ti ritrovi a spuntarne altri cinquanta nella più lunga carovana di becchini della storia dItalia. Il serpentone di Mercedes, Cruiser e Bmw, colorati di nero o di grigio, presso lalba punta lento verso lAquila per raccattare i defunti schierati sul piazzale della guardia di finanza e trasferirli ai cimiteri di Paese. Il corteo che sta per entrare in città ricopre chilometri dasfalto. E il traffico curiosamente impazza. Pendolari e turisti pasquali procedono a singhiozzo. Sbandano pure. Frenano, buttano locchio, rallentano, si sporgono, accostano. Non sanno bene se mettere la freccia o rispettare religiosamente la coda. Al contrario i benzinai, gli agenti della Stradale o gli omini fosforescenti dellAnas, guidano la mano nel segno della croce nonostante la prassi dica che no, non si fa, perché porta pure male quando il veicolo delle pompe funebri è senza cassa, privo di cuscino, sprovvisto di corone.
Ma peggio di così non può proprio andare. La processione dei centocinquantasei necrofori, che qui ancora chiamano vespilloni, abbandona lautostrada per imboccare il viale che porta là dove tutta la città è destinata a ritrovarsi. Il corteo triste prende unaltra via, scompare pigramente per apparire in ordine sparso a cerimonia conclusa. Ognuno va lento per la propria strada, che è poi quella indicata dai parenti dei defunti. I furgoni muovono uno appresso allaltro, prendono le statali dei paesi dove insistono i relativi cimiteri ma il percorso è a ostacoli perché strade, ponti e tornanti sono rotti o interrotti. E così accompagnare per lultima volta papà o mamma, il figlio o lamica, la nonna o lo zio, diventa una strazio. Un barbaro supplemento di dolore. La terra insiste a tremare, i cadaveri continuano a uscire, ormai prossima è la notte che si prospetta insonne di paura.
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