Roma Cesare, chi era costui? Gli appassionati compulsatori di intercettazioni (da Repubblica in giù) hanno nei giorni scorsi spiegato, con tanto di dotti paralleli storici, che quell’augusto nomignolo, usato nei loro conversari dai compari della combriccola ribattezzata pomposamente P3, non poteva che nascondere Lui, il Cesare Augusto di Palazzo Chigi. Berlusconi, insomma.
Così tutto tornava, e la temibile piramide criminogena sotto inchiesta trovava il suo vertice. E che vertice. Ieri però, come in ogni giallo che si rispetti, è saltato fuori l’alibi che rischia di smontare il teorema cesarista. Il primo a segnalare l’incongruenza è stato il giornalista Filippo Facci, che su Libero è andato a scovare un’intercettazione nel corso della quale Flavio Carboni e Arcangelo Martino, pilastri della «P3» sardo-partenopea, discutevano di candidature in Campania e a un certo punto evocavano il personaggio misterioso: «Cesare? Cesare è a Catania, e rientra sabato o venerdì sera». Ora, siccome le intercettazioni hanno una data e un orario, è bastato controllare l’agenda del premier dell’epoca (settembre 2009) per scoprire che Berlusconi, in quei giorni, a Catania non ci era passato neppure per sbaglio. Se questo è il criterio con cui si individuano gli adepti della «P3», nota il giornalista, pure Giorgio Napolitano (evocato come «amico mio» da Martino), potrebbe essere accusato di avere «un ruolo occulto».
Il mistero sulla vera identità di Cesare torna in alto mare, quel minaccioso «Cesare deve spiegare» che campeggiava ieri sulla prima di Repubblica deve trovarsi un nuovo destinatario, e nel Pdl si celebra la sconfitta dei «dietrologi della sinistra».
L’avvocato Niccolò Ghedini conferma l’alibi di ferro e sottolinea: «Come era facile intuire il nome “Cesare” non si riferisce affatto al presidente Berlusconi», basta una lettura attenta degli atti processuali per capirlo. E quindi «è del tutto evidente che Cesare è da individuarsi in altro soggetto, e ciò fa irrimediabilmente venir meno tutte le illazioni prospettate in questi giorni». La soddisfazione del difensore del premier dà il via alle prese di posizione degli esponenti berlusconiani. Il capogruppo Pdl Fabrizio Cicchitto ironizza sulle «pagine e pagine di Repubblica e dell’Unità che possono andare al macero», mentre «l’acutissimo Massimo Giannini (vicedirettore di Repubblica, ndr) deve riscrivere diversi articoli», zeppi di «centinaia di richiami a Bruto e alle Idi di marzo». E magari, lascia intendere Cicchitto, potrebbe anche «partire qualche querela», da parte del mancato Cesare. Più esplicito, il sottosegretario alla Difesa Guido Crosetto, che invoca «punizioni» per chi ha diffamato: «In un Paese civile sarebbe giusto che i giornali e le persone che, essendo a conoscenza di tutte le intercettazioni, ne hanno voluto usare una sola parte per attaccare Berlusconi ora, di fronte alla verità, pagassero». E chi «con la menzogna cerca di destabilizzare le istituzioni potrebbe incorrere in qualcosa di più pesante che una punizione pecuniaria».
Per Repubblica la giornata, cominciata male, finisce peggio: non solo Berlusconi non è Cesare, ma neppure Giancarlo Capaldo era Capaldo: il procuratore aggiunto di Roma, a sera, ha smentito l’intervista che il quotidiano gli pubblicava con evidenza ieri: «Mai rilasciata», e «mai pronunciato» le frasi che venivano virgolettate nel titolo a proposito della P3 su cui indaga («Una società occulta devastante che condizionava le istituzioni»).
Sul fronte inchiesta, ieri è stato interrogato l’ex sottosegretario Nicola Cosentino, che ha smentito le accuse: nessun complotto contro l’attuale governatore della Campania Stefano Caldoro. Nessun tentativo di gettare fango con attività di dossieraggio per farne saltare la candidatura alla presidenza della Regione. «Non ho in alcun modo tentato di screditare Stefano Caldoro», ha assicurato ai Pm. «Quando io ho preso il Pdl in mano in Campania - dice Cosentino - eravamo opposizione in tutte le realtà locali, con me siamo ora al governo.
«È quel che ha detto anche a me e a Berlusconi», conferma Caldoro. Che però precisa, gelido, che la sua candidatura non è stata voluta da Cosentino: «È stata una scelta di Berlusconi, poi sostenuta dal Pdl».
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