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Casa, lavoro e karate La ricetta speciale di un uomo normale

Casa, lavoro e karate La ricetta speciale di un uomo normale

nostro inviato a Cagliari

Adesso che ha vinto, Ugo Cappellacci si è persuaso che in fondo Renato Soru gli ha fatto un favore ad anticipare le elezioni. Il ritornello che hanno appiccicato al candidato del centrodestra e che sarebbe durato per altri quattro mesi, quel «signor nessuno», «carneade», addirittura il velenoso paragone con Caligola che il rivale sconfitto gli aveva cucito addosso, è già finito. Cappellacci non se l’è mai presa, ed è stata la prima dimostrazione di carattere. Ha tenuto i nervi saldi. Una dote naturale messa a punto con il karate, lo sport che praticava da ragazzo.
Ma Cappellacci ha trasformato quelle frecciate in armi a proprio vantaggio. Il «signor nessuno» si è costruito un’immagine di persona normale, padre di famiglia, professionista serio, amministratore pubblico apprezzato, e su questo ha basato la campagna elettorale. La sua vittoria è il trionfo della normalità. Anche ieri il governatore neoeletto aveva la barba lunga, portava la camicia sbottonata sotto la giacca blu, jeans e scarpe sportive. La prima dedica? Alla famiglia. Il primo impegno? Stare un po’ con i figli (Giuseppe di 15 anni, Chiara di 13 e Margherita, 9) che ha trascurato.
Il suo curriculum non è pirotecnico come quello di Soru, e questo non scatena la curiosità dei media. Non ha fondato società innovative, non ha fatto boom e sboom in Borsa, non sogna una Sardegna buia e senza turisti, non parla lentamente come un guru, non distoglie lo sguardo quando apre bocca, non indossa abiti di velluto. Non porta neppure un cognome che finisce con la «U», «non è colpa mia se non mi chiamo Cappellacciu», ha replicato quando Soru lo accusava di non essere un isolano.
Il quarantottenne Cappellacci sfogliava l’album di famiglia, «siamo sardi da almeno tre generazioni», il nonno materno Carlo Meloni è stato il primo sindaco (socialdemocratico) di Iglesias dopo il fascismo, dal 1944 al ’49, e fu tra i 14 componenti della consulta per lo statuto autonomista. Ma la barzelletta di un candidato «paracadutato dalla Lombardia» è stata dura a morire.
In Lombardia il nuovo governatore dell’isola ha studiato. Ha preso una laurea in economia e commercio e un master alla Bocconi. Lui e il fratello sono entrambi commercialisti come il papà Giuseppe, il quale aveva un grosso studio che seguiva anche gli interessi della famiglia Berlusconi in Sardegna. «Mi ero appena diplomato al liceo e già varcavo il cancello di Arcore – ha ricordato Cappellacci –. Ho una frequentazione antica con il presidente al quale sono legato da affetto autentico». Essere «il figlio del commercialista di Berlusconi» è il suo peccato originale, il marchio con il quale è stato liquidato come l’ennesimo gioco di prestigio del Cavaliere.
Ieri il direttore dell’Unità scriveva che il suo editore «è stato battuto dallo strapotere mediatico ed economico del premier». Anche la Nuova Sardegna debenedettiana ritagliava per Cappellacci il ruolo di fantoccio attribuendo ogni merito della vittoria alle «attenzioni di Berlusconi verso la curia», al suo interesse per «l’isola intesa come giardino di casa», alle sue «doti persuasive da incantatore di serpenti in marcia tra aerei di stato e annunci vistosi di soluzioni miracolistiche». Propaganda. Il vero merito del trascinatore Berlusconi è stato quello di capire che i sardi volevano tornare alla normalità, non ne potevano più di un personaggio chiuso, imprevedibile, visionario, spigoloso; un «pescecane travestito da spigola» che aveva fatto sognare tanti e ha deluso tutti.
La Sardegna voleva uno come Cappellacci. Un padre di famiglia «cresciuto a pane, professione e politica». Uno che ha messo il sorriso come slogan elettorale e non è uno sprovveduto nella pubblica amministrazione (è stato assessore «tecnico» in regione e al comune di Cagliari, amministratore in una casa di cura, presidente di una miniera appartenente al gruppo Rothschild). Un «non professionista della politica», ha detto Berlusconi che pure lo scorso agosto lo volle coordinatore regionale di Forza Italia. Uno che passa il tempo libero con gli amici e i familiari («ogni Natale ci mettiamo a tavola almeno in 40, sono mancato soltanto la volta che mia figlia aveva la febbre»), e che si insedia in regione ripetendo parole come dialogo, unità, moderazione. Uno che, a vittoria acquisita, resiste alla tentazione di togliersi i sassolini dalle scarpe.

E che si concede soltanto una «battuta cattivella» verso il suo avversario: «Soru candidato alla guida del Partito democratico? Me lo auguro per il bene del Pdl».

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