Cronaca locale

Case popolari, il Tar con la Regione: agli stranieri solo dopo cinque anni

Necessario per partecipare ai bandi risiedere in Lombardia da almeno un lustro. Per i sindacati la legge del Pirellone era discriminatoria. I giudici: "No, troppo blanda"

Case popolari, il Tar con la Regione: 
agli stranieri solo dopo cinque anni

Il campo di battaglia era quello delle assegnazioni delle case popolari. Ed è su questo terreno, minato e spesso strumentalizzato, che si è giocata la partita: da una parte i sindacati (Cgil, Cisl, Sicet e Sunia), dall’altra la Regione Lombardia, rea di aver inserito tra i requisiti per accedere al bando, la residenza o un’attività lavorativa in Lombardia per almeno 5 anni dalla data in cui si è presentata la domanda. Al grido di «requisito incostituzionale» e «discriminatorio» i sindacati avevano trascinato la Regione in una battaglia giurisprudenziale alla quale il Tar di Milano nei giorni scorsi ha messo la parola fine. Sancendo una volta per tutte non solo che «il parametro è idoneo, necessario e proporzionato», ma sottolineando che i 5 anni «sono appena sufficienti». Un duro colpo per le organizzazioni sindacali degli inquilini sicuri di poter abbattere nei tribunali una norma giudicata «lesiva dei diritti dell'uomo». L'argomento affronta una questione ampia e soprattutto di natura sociale.
A Milano, il 19% - una casa popolare su 5 - è assegnata agli stranieri. I redditi bassi sommati alla prole numerosa li hanno fatti balzare in testa alle liste di assegnazione. Con il rischio di scavalcare sempre e comunque giovani coppie, anziani soli che magari abitano da sempre in Lombardia ma si ritrovano a scivolare in fondo alla graduatoria. Per questo la Regione aveva introdotto qualche anno fa il requisito dei 5 anni, che ora i giudici giudicano «necessaria e proporzionata». La norma regionale sui criteri di partecipazione al bando per un alloggio a canone sociale «in primo luogo, non frappone in alcun modo limiti né alla circolazione né allo stabilimento né all'accesso al lavoro salariato nella Regione - scrivono i giudici nella motivazione della sentenza - la disposizione si limita unicamente a delimitare lo spettro soggettivo di intervento del servizio sociale in questione». Il criterio è definito «oggettivo e non discriminatorio perchè rappresentato dalla stabilità dell'insediamento abitativo». «La previsione della residenza o (alternativamente) dello svolgimento di lavoro da almeno cinque anni continuativi nelle aree della regione - si legge -, è parametro senza dubbio idoneo ad assicurare che l'intervento pubblico si diriga verso nuclei stabilmente insediati sul territorio dell'ente regionale, in modo tale che, da un lato, siano evitate possibili manovre fraudolente, dall'altro sia consentito programmare le risorse scarse a disposizione in vista delle esigenze delle comunità». «Il requisito imposto del lavoro o della residenza in Lombardia protratti per cinque anni è quindi adeguato alle finalità proprie del servizio di edilizia residenziale pubblica, il quale, avendo come scopo principale quello di fornire un'abitazione a nuclei familiari che non hanno risorse economiche sufficienti per provvedervi autonomamente, è naturalmente rivolto alla rimozione della condizione di bisogno di quanti abbiano deciso di stabilirsi sul territorio della Regione. É idoneo perché evita possibili manovre fraudolente. É necessario, perché consente all'ente regionale di programmare le risorse scarse a disposizione in vista delle esigenze delle comunità.

La misura, da ultimo, è proporzionata dal momento che sono sufficienti appena cinque anni dacché il lavoratore proveniente da qualunque Stato possa partecipare alle selezioni pubbliche per l'assegnazione dell'alloggio».

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