Il caso Battisti digiuna, ma gli basterebbe una dieta

Allora è così, il terrorista rosso Cesare Battisti, il pluriomicida Cesare Battisti, piuttosto che rientrare in Italia si dice pronto a morire in Brasile. E in una lettera ridondante indirizzata al presidente Lula egli scrive: «Consegno la mia vita a Lei e al popolo brasiliano». Addirittura. Ma cosa pensa che se ne faccia, il popolo brasiliano, della vita d'uno scalzacani pieno di sé, di uno che non ha il fegato per rispondere delle proprie azioni e delle proprie idee, di un querulo vigliacchetto, di un verme uso a tutte le bassezze pur di evitare di saldare il conto con se stesso, con le vittime delle sue funeste smargiassate rivoluzionarie e con la giustizia?
Annuncia lo sciopero della fame, Battisti. Dicendosi pronto ad andare fino in fondo, fino a morire (sempre che con un samba il popolo brasiliano non lo tragga d'impaccio) d'inedia. Ma che s'accomodi, che proceda. Che si metta pure a dieta. Oltre tutto, si dice che a stomaco vuoto si rifletta meglio e le cose sulle quali riflettere a Cesare Battisti non mancano. Che poi stia anche sulle spine in attesa del verdetto dell'Alta Corte, atteso per mercoledì, non ci dispiace: come pena è lieve, niente rispetto alle pene e ai lutti che ha procurato. Quattro omicidi, due dei quali di sua mano (ad Antonio Santoro, agente di custodia, sparò alla testa; ad Andrea Castagna sparò alle spalle), gli altri due come partecipante al «gruppo di fuoco» (Lino Sabbadin, macellaio, e Pierluigi Torreggiani, gioielliere, furono uccisi in nome della «giustizia proletaria» per aver reagito all'esproprio proletario, cioè alla rapina). Come provare misericordia, come perdonare un animale simile? Eppure, sebbene condannato in via definitiva - e non, come ha voluto far credere agli intellò francesi, che l'hanno bevuta, solo sulla base della testimonianza di pentiti - è probabile che Battisti sia graziato: l'ultima parola spetta infatti al presidente Lula. Il quale, saputo dello sciopero della fame del suo beniamino, lo ha invitato a soprassedere mandandogli a dire: «Io l'ho fatto. Fa male, non fa bene. Non lo raccomando a nessuno». Avrebbe potuto aggiungere: tanto non ti serve. Scrive infatti il solitamente ben informato quotidiano «O Estado» che Alta Corte o non Alta Corte Lula confermerà il giudizio del suo ministro della Giustizia, Tarso Genro, favorevole a concedere l'asilo politico e dunque la grazia a Cesare Battisti. Anche se questo significherebbe ridurre a carta straccia il Trattato fra Brasile e Italia in materia di estradizione. In tal caso, scontata la pena per possesso di passaporto falso, un paio di giorni di galera, niente più, Cesare Battisti tornerà a essere un uomo libero.

E orgoglioso, più che felice, per averla fatta franca, egli cesserà di frignare tornando a impartire, dalla spiaggia di Copacabana, quelle lezioncine che mandano in visibilio gli intellettuali di sinistra per i quali Battisti non è un assassino, non è un compagno che sbaglia, ma un eroe (e tutto sommato, al solo pensiero della mobilitazione della così detta società civile, del profluvio di petizioni, manifesti, raccolte di firme per perorare la causa di Battisti, nel caso egli fosse inopinatamente estradato giungendo, magari un po' sottopeso, qui da noi, l'arrogante atto d'imperio di Lula non parrebbe poi così discutibile. Se lo tenga).

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