Roma - Il gruppo alla Camera è (per ora) più affollato del previsto, di quello al Senato è stata annunciata ieri la nascita, e senza bisogno di «prestiti» da altre forze politiche: dieci senatori, tutti ex Pdl.
Ma di certo le neonate creature parlamentari che fanno capo a Gianfranco Fini non hanno alcuna voglia di andare già ora alla prova di forza, tanto meno sul caso Caliendo. Sulla mozione di sfiducia al sottosegretario alla Giustizia (presentata da Pd e Idv) sembra in corso un gran gioco del cerino, e il presidente della Camera non vuol rimanere scottato. Anche perché sa benissimo che difficilmente i suoi trentatré deputati resterebbero compatti come una falange macedone, davanti alla richiesta di votare (con Bersani e Di Pietro) la sfiducia a un membro del governo, sia pur indagato. Qualcuno, tra i parlamentari finiani, già mette le mani avanti: «Caliendo non mi pare meritevole di sfiducia, e io non ci penso affatto a sfiduciarlo: su questo non ho dubbi», avverte Antonino Lo Presti. Secondo il quale «la nostra battaglia di legalità non si infrange certo su questa mozione, e sarebbe ridicola una prova di forza del nostro gruppo su Caliendo». Un chiaro altolà all’ala dei «falchi» finiani, quelli che - come Italo Bocchino, intervistato ieri da Repubblica -, in nome «della legalità e dell’etica pubblica», definiscono il ritiro delle deleghe al sottosegretario «un gesto di responsabilità». Ma Lo Presti non è l’unico che direbbe no alla mozione delle opposizioni: altri neo-aderenti al gruppo finiano, come Souad Sbai e Giuseppe Consolo, hanno già preannunciato in privato la propria indisponibilità.
Ieri Fini, stuzzicato da Tonino Di Pietro che lo sfidava a «dimostrare che la sua è una battaglia per la legalità e non una furbata», e dunque ad impegnarsi a votare a favore della mozione di sfiducia, ha fatto sapere tramite portavoce di avere già «idee chiarissime» a proposito di quel voto, e che «le discuterà con il suo gruppo un attimo prima dell’eventuale voto sulla mozione di sfiducia». Dove il succo del comunicato sta tutto in quell’«eventuale»: la speranza di Fini è che a quella conta non si arrivi. Anche perché, ricordano i suoi, «fino a giovedì scorso Berlusconi sapeva bene che eravamo pronti a votare contro quella mozione», e Fini lo aveva già preannunciato anche al Pd. Poi c’è stato il patatrac e la cacciata dal Pdl, e ora «il pallino sta tutto in mano a Berlusconi». Il governo deve decidere se andare alla resa dei conti, col rischio di non avere la maggioranza in aula, o se - come da più parti si ipotizza, anche nel Pdl - evitare il voto. Se invece si voterà su Caliendo, assicura un big Pdl, «Fini avrà un’unica strada per non spaccare i suoi alla prima prova: l’astensione».
Per il presidente della Camera questa però non è l’unica gatta da pelare: anche sul capogruppo da nominare alla guida dei 33 (e se la prossima settimana a Montecitorio si vota bisognerà eleggerlo) la partita tra «falchi» e «colombe» è aperta. I primi vogliono Italo Bocchino, che «va risarcito dopo la decapitazione subita» quando ha dovuto rinunciare ai gradi di vicepresidente vicario Pdl, e che è attrezzatissimo per il mestiere. Oltre ad avere una linea politica chiara: è la punta di lancia della «sinistra finiana» che ritiene defunta l’alleanza di centrodestra. Fini, ha spiegato ieri a Repubblica, è «spendibile per un esperimento innovativo», per capeggiare una nuova coalizione anti-Berlusconi: «Una diversa area moderata con autonomisti, centristi Pd e esponenti di una destra moderna in contrapposizione» alla destra «populista e integralista di Bossi e Berlusconi». Le «colombe» ex An, convinte che l’asse col Pdl resti centrale, che il rapporto col Cavaliere vada ricucito e che sia meglio preparare una «successione morbida» anziché rompere, sponsorizzano invece Roberto Menia o Silvano Moffa.
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