«Il caso dei biscottini deve farci riflettere su certa beneficenza»

Ho letto nei giorni scorsi la conferma del caso che il Giornale aveva sollevato sabato scorso circa l'offerta di sacchetti di biscotti (targati UE) e offerti durante il corteo per il G8 ai «poveri» manifestanti onde rifocillarli dalle loro estenuanti fatiche. La «confessione» di don Gallo presente nell'articolo di Fabrizio Graffione dà il corretto risalto a questa «pauperistico-politica» vicenda, adeguatamente degna del contesto rappresentato dal corteo e dai suoi vivandieri. Come si dice «peccato confessato, mezzo perdonato» anche se il «celebre sacerdote» probabilmente è un peccatore veniale reiteratamente recidivo. Ancora una volta però ciò che è importante in questo frangente, a parte il fatto in se stesso, è la facile illazione che solleva circa la massificata «industria» dei professionisti della carità e gli usi strumentali che essi fanno di tutto quanto ricevono. Un evento distorto può sollecitare a ripensare tutto un ciclo che si attua vicino a noi ma lontano dalla nostra attenzione perché è coperto da un impulso volto (ufficialmente) alla beneficenza. Facciamo un modesto esempio: i biscotti in questione (anche se possono in teoria e forse anche in pratica essere donati dalle aziende produttrici) costano al nostro Stato una determinata somma (sia che li paghi alle aziende sia che facciano parte della quota di soldi italiani che vanno alla UE). Dunque li paga il contribuente, così come alla fin fine il contribuente paga tutti gli aiuti (alle varie onlus che si occupano di extracomunitari). Le onlus, si sa, sono no profit (ma siamo davvero sicuri che le cose stiano così?). Non c'è alcuna cresta fra prezzi corrisposti e somme ricevute (dall'ente pubblico)?
Dato che non ci troviamo di fronte a misteri ma soltanto a meccanismi che vengono posti in essere artatamente da individui che raramente sono sotto l'attenzione degli inquirenti preposti, sarebbe ora di cominciare a riflettere su questo enorme trescone della beneficenza (proprio a partire da tutte quelle intraprese che spendono fior di soldi in spot pubblicitari fondati sull'esibizione dell'infelicità collettiva di determinate categorie di individui umani (per la verità anche di animaletti) per sollecitare le offerte da versare tramite bollettini postali o versamenti bancari. Come è noto: a pensare male si fa male ma di solito ci si azzecca. L'industria del bene infatti si fonda sull'utilità oggettiva (a parte i sentimenti soggettivi dei singoli). Se l'utilità si muove nell'ambito del lecito, ben venga poiché siamo di fronte ad un positivo impulso verso la produzione di beni e servizi che vanno ad aiutare i bisognosi. Ma questo tipo di condotta in generale va oculatamente verificato perché è facilissimo che tenda a beneficare soltanto se stesso. È noto che dietro lo slogan delle «espropriazioni proletarie» (rubare ai ricchi per dare ai poveri), guarda caso nessuno ha mai avuto il coraggio di aggiungere «cioè a noi stessi!» ovvero i ladri che rubano sono poveri per antonomasia. Il che naturalmente non è affatto vero. Ora se l'assalto ad un supermercato è un'operazione rozza non lo è per nulla lo sfruttamento accorto di determinati meccanismi che la società pone in essere nel suo normale ciclo produttivo della ricchezza che può essere accortamente di volta in volta distorto. Siamo in questo caso in presenza di ragguardevoli condotte parassitarie che tendono a verificarsi in quelle circostanze in cui un beneficio che si vuole conseguire per «i disperati della terra» va particolarmente (se non soprattutto)a giovare alle finanze di coloro che «disperati» non lo sono per nulla.

Il che vuol dire che lo strumento che dovrebbe conseguire la finalità del bene è diventato fine a se stesso, cioè lo strumento ha inglobato in se stesso il fine e fa tutt'uno con esso.
* filosofo, docente del Liceo D’Oria

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