Politica

Caso Lombardini, il Giornale non diffamò il pool

I magistrati siciliani condannati a pagare le spese

Gianluigi Nuzzi

da Milano

Dopo quattro querele, sette anni di processi e una sequela di assoluzioni, si chiude definitivamente in Cassazione la vertenza giudiziaria tra Giancarlo Caselli, il pool storico di Palermo, e Francesco Pintus, ex procuratore generale di Cagliari. La Suprema Corte ha confermato l’ultima sentenza d’Appello pendente, ribadendo che Pintus non ha diffamato i magistrati siciliani per le dichiarazioni al curaro rilasciate subito dopo il suicidio del giudice Luigi Lombardini. Né i quotidiani che le pubblicarono. Normale diritto di critica. La Cassazione ha quindi respinto le richieste risarcitorie (per centinaia di migliaia di euro a querela) delle toghe siciliane. Inoltre ha condannato Caselli, Vittorio Aliquò, procuratore aggiunto, Antonio Ingroia, Giovanni Di Leo e Lia Sava, sostituti procuratori, a pagare le spese processuali. Una somma forse modesta ma dall’esplicito valore simbolico.
L’11 agosto 1998 Caselli e alcuni Pm erano andati a Cagliari per interrogare Lombardini in relazione ad alcuni sequestri. Tra la deposizione e l’inizio di una perquisizione, Lombardini si tolse la vita sparandosi in bocca. Una tragedia sia per la comunità giudiziaria, sia nel Paese. Pintus, pur non legato da particolare amicizia con Lombardini, dichiarò: «Bisogna che si sappia che Lombardini è stato oggetto di un’aggressione senza precedenti. Da anni la Procura di Palermo ha aperto la caccia nei nostri uffici giudiziari. Questi sono i metodi: sono venuti in cinque e lo hanno sentito per sei ore. Bisogna finirla».
Caselli saltò sulla poltrona. Si sentì leso nell’onore. E partì una raffica di querele: dal Corriere a quella conclusa ieri davanti alla Suprema Corte e che vedeva in causa Il Giornale. Processi tra Milano, Roma, Monza. Carte bollate, accuse, assoluzioni. Sempre. «Ne abbiamo affrontati otto - commenta Jacopo Pensa, che assiste il magistrato con il figlio Lorenzo Pintus - li abbiamo vinti tutti».
In particolare al vaglio della Cassazione c’erano due articoli del Giornale scritti da Marco Ventura nell’agosto del 1998. Dai titoli forti: «Pintus: presto saprete la verità» e «Pintus: non potete processare un morto». Apriti cielo, querele a pioggia dopo tre mesi dalla pubblicazione quasi a scadenza termini. Primo giro di boa a Monza. Il Pm contestò a Pintus e a Ventura il reato di diffamazione aggravata. Nell’articolo si sarebbe affermato che erano stati commessi gravi abusi da parte dei magistrati. Le frasi incriminate dell’articolo erano, come riportato nel capo di imputazione: «Pintus ha dichiarato molto, ha lanciato a Caselli e al suo staff l’accusa di una vera e propria aggressione ai danni dei colleghi cagliaritani, senza risparmio di colpi bassi anche per lui...». Ancora: «Aspetto pazientemente ma ho qualche dubbio che possa essere legittimo processare un morto. Anche perché si rischia di far morire Lombardini per la seconda volta». Il giudice monocratico Luca Ghedini Ferri nel maggio 2001 assolve Ventura e Pintus. Con la formula ampia: «Il fatto non costituisce reato». La prima vittoria. Nelle motivazioni si spiega che le frasi erano state rese in un momento di particolare emozione. Non erano manifestazioni di un pensiero compiuto, ma di stati d’animo e sensazioni senza valenza diffamatoria. Procura Generale e parte civile ricorrono in Appello, ma la Corte conferma la sentenza: «Pintus intendeva tutelare la figura morale di Lombardini, che essendo deceduto non poteva difendersi». Ultima boa: la parte civile, rappresentata dal legale Carlo Smuraglia, propone ricorso per Cassazione, che condivide le ragioni del procuratore generale Izzo e dei difensori.
gianluigi.

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