Il caso Sgorlon

Il potere più forte è quello che non ha volto né nome. Basterebbe questo per rispondere a chi, come Dino Messina ieri sul Corriere della Sera, chiede «Fuori i nomi!» a proposito della polemica sugli intellettuali di sinistra che hanno emarginato grandi autori «colpevoli» di non essere organici all’ideologia prima comunista poi progressista. Non basta - nota il Corriere - lamentarsi contro una generica «sinistra snob», anonimi «salotti chic», imprecisate «lobby culturali»: servono i nomi. Giusto. Eccoli.
Alberto Moravia (e uno) contrastò pesantemente un autore anticonformista come Giuseppe Berto, con il quale ebbe un plateale scontro nel ’62, in occasione del Premio Formentor: Berto osò contestare l’onnipotente «capomafia culturale» (parole sue) il quale aveva caldeggiato alla giuria (a danno de La vita agra di Bianciardi...) un libro scritto dalla sua compagna, Dacia Maraini. Berto denunciò proprio quello che il Corriere mette in dubbio: il pericolo che «la società letteraria si corrompa, che da giudice dei valori si trasformi in camarilla», gridando che «è ora di finirla con questi monopoli culturali protetti dai giornali di sinistra». Morale: tutti, in privato, solidarizzarono con Berto, nessuno si espose, Moravia recuperò in fretta tutto il suo prestigio e Berto fu messo da parte. Due anni dopo, quando uscì Il male oscuro, oggi un classico, Walter Pedullà (e due) mise addirittura in dubbio «l’autenticità del conflitto bertiano con il padre».
Alfredo Cattabiani, che tra il 1969 e il 1970 fu chiamato a dirigere la Rusconi Libri e che decise la pubblicazione di autori come Prezzolini, Cristina Campo, Ceronetti..., fu prima ignorato e poi, quando i libri si vendevano a decine di migliaia di copie, denigrato. Umberto Eco (e tre) pubblicò sull’Espresso un articolo minaccioso verso scrittori come Quinzio e Ceronetti che avevano avallato la Rusconi; e Pedullà (ancora lui) su Rinascita mise in guardia dai «piani provocatoriamente reazionari» di Rusconi mentre Ceronetti, reo di collaborazionismo, fu allontanato dall’Espresso di Livio Zanetti (e sei). Cattabiani, in una intervista del 1994, ricordò anche questo aneddoto: «E ora ecco uno degli ultimi recenti episodi di censura: l’anno scorso usciva un mio libro, Santi d’Italia. Si trattava di lanciarlo adeguatamente e la Rizzoli lo consigliò anche a Corrado Augias (e sette) per la sua rubrica tv Babele. Silenzio per settimane. L’ufficio stampa Rizzoli mi confessò: “Non sono riuscita a ottenere nulla. Sa, Augias è di sinistra... Che vuole? Le cose stanno cos씻.
Le cose stavano (o erano state così) - per inciso - anche per molti altri, come Guareschi o Piero Chiara, ignorati o considerati poco più che macchiette in vita, e recuperati post-mortem.
Ancora: Edoardo Sanguineti (e otto), leader del famigerato Gruppo 63 (che militarizzò per anni tutte le antologie e storie della letteratura), liquidò Salvatore Quasimodo come un non-poeta, salvando solo le sue traduzioni dei lirici greci. Nonostante il Nobel.
Tiro al piccione di Giose Rimanelli, romanzo sulla Resistenza vista da un repubblichino, invece, pur col parere favorevole di Pavese e Vittorini, fu bocciato da Calvino (ancora lui) e dirottato in Mondadori adducendo varie ragioni.
Sorvolando sulle scelte, autorevoli quanto opinabili, di Alberto Asor Rosa per la sua Storia della Letteratura italiana, si può ricordare la triade Alicata-Muscetta-Salinari (e nove e dieci e undici), marxisti-comunisti prima ancora che critici letterari. Disposti a dilaniarsi “in famiglia” ad esempio sul Metello di Pratolini, ma compatti nel rappresentare, “fuori casa”, il ruolo del Pci come garante morale della cultura italiana. A proposito di Carlo Muscetta: è a lui che Italo Calvino (e dodici) scrive la famosa lettera, nel ’51, per spiegare la bocciatura del romanzo «eretico» di Cassola Anna e i comunisti (poi uscito nel ’52 col titolo Fausto e Anna) stroncando i pericoli ideologici di un libro che «potrebbe intitolarsi: “Come si diventa democristiani”». Salinari, da parte sua, è lo storico della letteratura (il celebre Salinari-Ricci...) che a proposito del Silone di Una manciata di more (’52), scriveva che la sua «caratteristica fondamentale di scrittore è l’impotenza», il «suo gusto grossolano e provinciale», e non gli resta che «cambiar mestiere».
A proposito di manuali.

Proviamo a sfogliare la Guida al Novecento di Salvatore Guglielmino (e tredici, e ci fermiamo), apparsa nel ’71 e diventata per un trentennio la Bibbia letteraria dei licei: parte quarta, titolo «Rinnovamento o restaurazione», periodo: secondo dopoguerra; testi di Pintor, Vittorini, Togliatti, Bobbio, Gramsci, Calvino, Amendola; parte quinta, titolo «Contestazione, ricerche, mercato», periodo: dagli anni del boom in avanti; autori: Calvino, Colletti, Scalfari, Pasolini, Levi, Foa, Morante, D’Arrigo, Consolo, Eco, Magris. Guglielmino è mancato nel 2001. Se fosse vivo oggi - probabilmente - antologizzerebbe Baricco, Ammaniti, Giordano. E Saviano.

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