Politica

Il caso Stampa Quel silenzio di piombo sui tarocchi anti premier

No, non bastano quattro righe nella pagina delle lettere, striminzite e anonime, sul solito deprecabile errore redazionale, oltretutto buttate lì con disprezzo sotto la rubrica del direttore, il quale evidentemente non ha ritenuto che fosse suo dovere scusarsi personalmente per l’errore (?) marchiano commesso dalla Stampa di mercoledì 19 agosto.
Non basta nemmeno, anzi fa un rumore sordo, il silenzio scelto dal giornale che è stato falsificato e offeso, L’Avvenire, e che tacendo ha scelto di fingere di non essere offeso, dunque si può stimare ragionevolmente se non complice perlomeno in sostanziale accordo con l’operazione. Suscita infine qualche interrogativo di più di quelli che già abitualmente colpiscono la cosiddetta libera stampa e informazione antiberlusconiana di professione, la scelta fatta da tutti gli altri, escluso Il Giornale che può fregiarsi serenamente di aver colto in fallo i falsificatori, del silenzio sull’argomento delicato e scandaloso. Con l’eccezione del sito gossip più credibile d’Italia, Dagospia, che stavolta ha preso una solenne cantonata nell’esercizio di dietrologia senza confini.
La Stampa non ha solo pubblicato la fotografia di un numero inesistente dell’Avvenire, quotidiano della Conferenza episcopale italiana, a corredo di due pagine costruite per attaccare Silvio Berlusconi e insinuare pesantemente un dissidio insanabile tra il premier e le gerarchie cattoliche. Ha pubblicato un titolo nel quale il Papa personalmente avrebbe attaccato Berlusconi con un linguaggio da comizio elettorale, «Silvio, ora basta», rinfacciandogli promesse mai mantenute e attaccandolo personalmente perché si occuperebbe della propria famiglia e non delle famiglie italiane. Lo ha fatto senza che a uno solo dei molti incaricati di varia e crescente responsabilità gerarchica di confezionare un giornale passasse per la mente che quello era un falso palese, formale e sostanziale, che un titolo e una vicenda tanto clamorose sarebbero state arcinote, in Italia e non solo. Se il pontefice operasse un gesto di rottura così clamoroso con un presidente del Consiglio italiano, forse quel premier non sopravvivrebbe politicamente. Se un pontefice scegliesse di esercitare il proprio magistero così personalisticamente, e con tale linguaggio, forse non sopravvivrebbe nemmeno il suo pontificato. Vedete che ci tocca imboccare un percorso surreale per tentare di spiegare una simile marchioneria. Ma alla Stampa no, l’hanno pubblicata allegramente perché è nella cultura dell’antiberlusconiano dare per scontato che il presidente del Consiglio sia non già criticabile, cosa del tutto legittima, ma oggetto naturale di disprezzo e di attacco forsennato, che qualunque cosa possa essere detta e scritta di un signore che gode della fiducia elettorale degli italiani. Il direttore di quel giornale è molto giovane e porta un cognome onorato, ma le due caratteristiche non costituiscono un alibi per il prodotto schiamazzante che va facendo. Bene ha fatto Ezio Ercole, vicepresidente dei giornalisti del Piemonte, a chiedere che la vicenda del falso sia discussa nella riunione del 7 settembre.
Proprio per la gravità del fatto è deprecabile il low profile scelto dall’Avvenire e dal suo direttore, Dino Boffo. Ci saremmo aspettati almeno lo stesso disagio, mortificazione e sofferenza per la messa in mora di uno stile sobrio, che il direttore di recente ha rivelato rispondendo a un parroco militante molto antiberlusconiano. Il silenzio in questi casi è complice. La falsa prima pagina non ha scosso minimamente neanche i grandi cronisti d’assalto degli altri quotidiani, gli stessi che, tanto per fare un esempio, volevano impalare il direttore di Panorama per una copertina nella quale il solito Silvio Berlusconi sfoggiava una chioma ritenuta troppo folta, e gridavano allo scempio della onorata professione di giornalista.
Last but not least, l’unico giornale che racconta la sapida storiella è on line, è Dagospia. Ma il rubrichista si fa travolgere dalla smania dietrologica, e sentite come la racconta. Lungi dall’evidenziare la volgarità e la gravità del falso, decide che è tutta una vendetta del neodirettore del Giornale, Vittorio Feltri, perché suo figlio Mattia Feltri, in forza come caporedattore alla Stampa, sarebbe stato messo in panchina da Luigi Calabresi. Naturalmente il nuovo direttore non ha ancora messo piede materialmente in redazione né ha avuto il malvezzo di suggerire alcunché, suo figlio se la cava alla grande da solo professionalmente, se mai rispondesse al vero che la direzione Calabresi gli ha riservato minore spazio, sarebbe un’altra bella pietrona da apporre in capo alla suddetta direzione. Anche per Dago invochiamo il deprecabile errore di redazione?
La verità è triste e semplice.

A forza di usare come metodo politico e informativo dell’opposizione la pratica di sparare sul presidente del Consiglio, a forza di sostituire alla dialettica politica la calunnia personale, a forza di tirare per la giacchetta alleati trovati al mattino e persi al tramonto, si può cadere in una trappola viscida come quella nella quale è caduta La Stampa e il suo rampante ma confuso direttore.

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