Il caso Thyssen messinscena di un dramma

La regista Lara Franceschetti presenta «Acciaio liquido» La piéce ricostruisce la tragedia della fabbrica torinese

Ferruccio Gattuso

La cronaca e la storia si inseguono sulle pagine dei giornali e sul palcoscenico. É di pochi giorni fa la sentenza definitiva della Cassazione sul rogo all'acciaieria Thyssen di Torino: confermate le condanne per l'ex ad e per i dirigenti del gruppo, dopo otto anni e mezzo dalla tragedia: nella notte fra il 5 e il 6 dicembre 2007 sette operai dello stabilimento di Torino morirono investiti da una fuoriuscita di olio bollente. Quella storia, attraverso una messa in scena scrupolosa e originale, prende forma in prima assoluta nazionale al Teatro Out Off fino a domenica con «Acciaio liquido», piéce da un'idea di Lara Franceschetti (adattamento e regia) e scritta da Marco di Stefano. Otto attori in scena Federica Armillis, Angelo Colombo, Andrea Corsi, Paolo Garghentino, Giovanni Longhin, Francesco Meola, Claudio Migliavacca e Giuseppe Russo -, cinque blocchi narrativi intervallati da frammenti della sentenza, una galleria di personaggi e monologhi dove gli Operai, i Dirigenti, i Parenti delle Vittime e la Giustizia sono le categorie che contengono, al loro interno, storie individuali capaci di parlare direttamente al pubblico. «L'idea nacque anni fa: spiega Lara Franceschetti stavo scrivendo un testo sulle cosiddette morti bianche, avevo avuto contatti con i responsabili della sicurezza alla Thyssen e con l'unico operaio superstite al disastro, Antonio Boccuzzi. Da qui è nata l'esigenza di concentrarmi su questo episodio che, a mio parere, poteva spiegare a fondo la natura umana. Non mi interessava dare una risposta schierata, né fare una denuncia attraverso il teatro: i giornali e le sentenze hanno detto tutto. Volevo che gli spettatori uscissero dallo spettacolo con una domanda: come mi sarei comportato io?». In tutto questo, però, la giustizia deve muoversi secondo parametri asettici, che non sempre considerando la natura umana: «Alla fine spiega Franceschetti ci sono quattordici vite spezzate: sette morti e sette ancora vivi, segnati per sempre per non avere avuto il coraggio di dire di no. I manager che, dopo aver discusso se mettere a norma l'impianto, decidono di correre il rischio, così come fanno le vittime, in una scena che ho ambientato nello spogliatoio, poco prima di entrare nella stanza dove tutto accadrà». In scena, tre tavoli di ferro su ruote, che si compongono e scompongono in orizzontale e verticale a formare tavoli di riunione e pareti.

«I monologhi dei parenti delle vittime conclude la regista - coinvolgono molto il pubblico: attraverso normali racconti di vita e relazioni famigliari raggiungono lo scopo di porci alla domanda di cui sopra: come mi sarei comportato io in quella situazione, se fossi stato un dirigente o un operaio?».

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