Castelli: le donne col burka vanno denunciate

Scialoja, presidente della Lega musulmana in Italia: «Il ministro ha ragione, ma quell’abito non è islamico e si usa solo in Afghanistan»

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Cristiano Gatti

Il Burka, la Fallaci, l’Islam: con questa scaletta si va sul sicuro. È subito caso nazionale. Se poi a stimolare le esternazioni è la visione di Submission, il film di Theo Van Gogh che si porta dietro sangue e anatemi, dall’assassinio del regista alle minacce contro chi si azzarda a proiettarlo, il confronto diventa inevitabilmente aspro e feroce. Come se ne sentisse la mancanza.
«In Italia è vietato circolare mascherati: la legge va applicata, bisogna denunciare le donne che circolano con il burka», dichiara il ministro della giustizia Roberto Castelli, presente alla proiezione comasca del discusso video. Immediato il coro delle reazioni antileghiste, che toccano i toni più estremi nella replica di Alfonso Pecoraro Scanio, presidente verde: «Siamo al festival di chi la spara più grossa. Le baggianate leghiste servono a nascondere i fallimenti del governo. Castelli e Calderoli se ne devono andare». Punto e a capo, senza possibilità di capirsi.
Per Castelli, in ogni caso, non ci sono margini di discussione: «Le leggi dello Stato vanno fatte rispettare, con le buone o con le cattive. Andare in giro mascherati è reato. Così come non è tollerabile che qualcuno, solo perché è più sfortunato, possa vendere prodotti falsi... Mi sembra incredibile anche solo discutere che qualcuno possa violare le leggi».
Al momento il burka non sembra il primo dei problemi italiani: come si ricorderà, l’unico episodio capace di sollevare clamore si registrò nel settembre scorso a Drezzo, un paese proprio del Comasco, dove il vigile multò due volte in due giorni Sabrina Varroni, la trentaquattrenne convertita all’Islam che circolava con il volto coperto. «Ma il problema in Italia non esiste - incalza l’altro verde Paolo Cento - questa è una crociata demagogica e inattuale. Castelli sta solo agitando fantasmi...».
Come un tam-tam inarrestabile, i commenti scuotono l’ovattato sabato italiano. Posizione lineare e netta quella di Mario Scialoja, presidente italiano della lega musulmana: «Il burka non è un abbigliamento islamico, né è dettato dalla nostra religione. È previsto soltanto da correnti estreme». A seguire, gli interventi incalzano. Le agenzie battono reazioni a raffica. Preoccupazione viene espressa dal mondo degli immigrati islamici, che nel loro convegno tenuto in concomitanza «offrono e chiedono rispetto». Il timore è che la nuova uscita di Castelli possa minare le già precarie basi del difficile confronto tra civiltà. Come una sassata nel fragile vetro attraverso cui ci si guarda e ci si studia. Daniela Colombo, presidente delle Donne per lo sviluppo, non nasconde i rischi: «Le leggi si rispettano, è giusto. Purché però tutto questo non diventi occasione per rilanciare crociate contro il velo: mi sembra si sia già chiarito che con il velo la donna è riconoscibile».
Contro il burka, dalla parte di Castelli, c’è l’articolo 85 della legge di pubblica sicurezza, che in pratica consente di presentarsi mascherati soltanto a Carnevale o in occasioni molto particolari. Il ministro però non esita a rilanciare un messaggio dai toni molto fermi, ormai tradizionale cavallo di battaglia leghista, guarda caso perfettamente in linea con gli appelli di Oriana Fallaci perché l’Europa cessi di diventare Eurabia. Che la coraggiosa scrittrice emigrata negli Stati Uniti sia di fatto l’intellettuale di riferimento, almeno sul tema islamico, è dimostrato anche da un’altra esternazione dello stesso Castelli. Praticamente un’arringa della difesa: «La Fallaci è stata processata in Francia. Io personalmente le ho evitato un processo in Svizzera. Non sono riuscito ad evitarglielo in Italia, ma vi garantisco che anche attraverso la mobilitazione ne eviteremo la condanna: sicuramente, prima del verdetto avremo cambiato il reato d’opinione e cadrà quindi l’accusa».
Rispetto alla campagna contro il burka, che al momento evoca soltanto scenari estremi di un Afghanistan remoto, la mobilitazione pro-Fallaci appare decisamente più attuale e tempestiva. Anche sul nome, sugli scritti, sulle idee della grande scrittrice fiorentina l’Italia si è già divisa e ancora si dividerà, ma in ogni caso un Paese civile non può sopportare che un’opinione liberamente espressa e debitamente argomentata diventi reato d’opinione. Con ragioni fondate, Castelli spiega: «Nessuno si sarebbe potuto immaginare che usciti dall’epoca sanguinaria degli anni Trenta, durante la quale si bruciavano i libri, ci si dovesse mobilitare addirittura a livello di Consiglio dei ministri europei per evitare che si bruciassero di nuovo i libri di un’autrice scomoda, ma di successo».


È ufficialmente il primo atto del delicatissimo - e anche abbastanza inquietante - processo contro Oriana Fallaci, pensatrice libera, accusata di pensare. Nell’infuocato pomeriggio di Castelli, un dato consolante: non ha in testa solo il burka.

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