È la prima volta che un grande maestro delle nostre scene come Massimo Castri si accosta a Samuel Beckett. È la prima volta che la sua sensibilità e la sua intelligenza «critica» affondano lo sguardo nello spaesamento contemporaneo e disarmante di Hamm e Clov, protagonisti di un Finale di partita evocativo di scenari post-atomici dove limmobilità umana e il non senso dellesistenza rimandano ad un vuoto epocale incapace di aprire il benché minimo spiraglio di fiducia. Non è dunque un caso che questo incontro con il geniale drammaturgo irlandese avvenga per Castri dopo una lunga carriera di successi e di intuizioni sceniche personalissime. Quanti ne hanno seguito il lavoro non faranno fatica a ricordare i suoi memorabili Goldoni, Pirandello, Ibsen, Pasolini, Euripide.
Questo Beckett, prodotto dal Teatro di Roma insieme con Emilia Romagna Teatro e il Metastasio e in cartellone a India da oggi, proviene da lì, ma trova la sua incubazione più diretta nella messinscena delle Tre sorelle di Cechov presentata allArgentina qualche stagione fa. Vi si riscontra la stessa impossibilità di andare, di muoversi, di cambiare, di sperare. La stessa dipendenza di un personaggio dallaltro. La stessa claustrofobia. La stessa desolazione interiore. Lo stesso bisogno di rinviare qualcosa di fatalmente inevitabile.
Solo che qui la partita della vita (e della morte) si gioca tra un cieco paralizzato su una sedia e rotelle e un servitore sempre in procinto di andarsene e di guardare «fuori» (lottimo Vittorio Franceschi e Milutin Dapcevic), ai quali fanno poi da sommessi custodi le flebili voci di Negg e Nell, genitori di Hamm rinchiusi in bidoni della spazzatura (Diana Hobel e Antonio Giuseppe Peligra).
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