Paolo Giordano
da Milano
Ma lasciamo perdere le risatine compiacenti. Per lui, che comunque è un artista vero, ora mica è facile ammettere come ha fatto allo Scotland on Sunday: «Sono arrivato a capire che essere un musulmano e, allo stesso tempo, un artista sono due realtà che possono convivere fianco a fianco». Il suo integralismo, come sempre accecante, progressivo, insinuante, si mise in moto quando suo fratello David gli regalò una copia del Corano, nel 1976. Per quasi trentanni Cat Stevens è scomparso. Inghiottito, annullato. È sempre rimasto, salvo rarissime eccezioni come quellimbarazzante video di Peace train trasmesso a New York al concerto post 11 settembre, in silenzio proprio come le vie di fianco alla reggia del Mullah Omar a Kandahar, nellAfghanistan talebano che vietava la musica. Ora Cat Stevens precisa che «non penso di aver mai detto che il pop fosse blasfemo», eppure tra le sue parole, qui e là, il significato era, drammaticamente, proprio quello.
Cera, nelle rarissime esternazioni, il senso di intolleranza che talvolta opprime gli integralisti e di certo non era stato inserito nella «watch list» della Cia, che gli impedì di entrare negli Stati Uniti, solo perché è un autorevole esponente della società British muslim. Cat Stevens, anzi Yusuf Islam, era in bilico. Ma oggi non cè da festeggiare solo la bellezza cristallina del suo ciddì.
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