La causa più lenta del mondo: 192 anni per una sentenza

Il processo, riguardante dei terreni in Sicilia, iniziò ai tempi del Congresso di Vienna e si è trascinato fino ad oggi. La sentenza emessa dal figlio di uno dei giudici che si erano occupati del caso

La causa più lenta del mondo: 192 anni per una sentenza

Il processo che ha attraversato tre secoli e sfiorato l’eternità è finito. Il Comune di San Giovanni Gemini ha vinto: i terreni contesi sono suoi. Sorpresa: nessuno ha impugnato l’ultima sentenza, quella del Commissario agli usi civici di Palermo che il 1 settembre 2008, a centonovantadue anni dall’inizio della querelle, aveva definitivamente assegnato la proprietà al piccolo municipio dell’Agrigentino. Il verdetto del giudice Giuseppe Barcellona seppellisce le residue speranze dei Viola e delle altre famiglie che dai tempi del Congresso di Vienna le avevano tentate tutte per veder riconosciuti i propri diritti. Un flash aiuta a capire la bulimia della vicenda: questo ultimo troncone dell’intricatissima storia era cominciato nel 1958 davanti al commissario Antonio Barcellona, padre di Giuseppe, e a tenere alta la bandiera dell’amministrazione civica allora c’era l’avvocato Salvatore Mangiapane. Mezzo secolo dopo, ad ascoltare il verdetto di Barcellona junior, Mangiapane c’era ancora, ma scortato come sostituto processuale dalla figlia Daniela.
Di padre in figlio, giù giù come un lussureggiante albero genealogico. Decine di giudici, una legioni di avvocati e un battaglione di periti, tutti si sono cimentati con un solo quesito, poi sminuzzato in tante domande parcellizzate: era valido o no l’atto con cui i paesi di San Giovanni Gemini e Cammarata - che però a un certo punto si perde nelle brume della storia - avevano venduto trecentomila metri quadrati di terreni demaniali a un certo Giuseppe Romeo? L’atto fu sottoscritto davanti al notaio Gioacchino Accardi che a sua volta aveva fatto valutare le terre ad Antonio Barno. L’agrimensore le aveva stimate 2030 once. Tutto regolare?
Mica tanto. Perché qualche tempo dopo, i due comuni ricevono un’offerta assai più sostanziosa e aprono gli occhi: l’accoppiata Accardi-Barno li ha fregati; si scopre che Romeo è solo la testa di legno di una potente famiglia della zona: i Mendola. I Comuni gridano all’imbroglio. Chiaro?
In questa storia è già qualcosa sapere qual era il peccato originale che ha messo in moto questa giostra infinita di provvedimenti, sentenze, rimbalzi davanti a un catalogo intero di giudici ed epoche: la Gran Corte civile, il Consiglio d’Intendenza di Agrigento, il Commissario agli usi civici, figura anfibia per metà funzionario dello Stato e per metà magistrato, la Cassazione. Una filastrocca infinita, una foresta di riti e di procedure, una saga generazionale con un viavai di famiglie: i Mendola, i Guarino, i Caracciolo, i Viola, inesorabilmente ingoiati dal tempo. Così sembra incredibile che un giudice in carne e ossa sia riuscito, sicuramente per sfinimento delle consumate parti, a fermare la giostra.
Ma, ormai, non ci sono dubbi: «Il Comune di San Giovanni Gemini - sintetizza in una riga due secoli Daniela Mangiapane - sostanzialmente ha vinto». Dove l’avverbio copre duecento anni di sentenze contraddittorie. L’ultima tornata è andata avanti mezzo secolo e ha impegnato, oltre al Commissario, la Cassazione e la corte d’appello di Palermo. Nel 2004, dopo l’ennesimo valzer, il Comune era tornato davanti al Commissario per rafforzare la propria vittoria ma i Viola avevano giocato la carta della legittimazione: «In pratica spiega Daniela Mangiapane - avevano chiesto che si tenesse conto, indennizzandoli, del tempo trascorso e del fatto che avevano dato il loro contributo a migliorare quei terreni coltivandoli e piantando alberi». Niente. Alla fine la giustizia ha tolto loro anche questa consolazione e i Viola, toccando ferro, hanno rinunciato al folle proposito di misurarsi con l’eternità.
L’intreccio di nomi e cognomi è più complesso della trama di un grande, fluviale romanzo russo dell’Ottocento, alla Tolstoj, ma l’avvocato Mangiapane padre, che alla fine è sopravvissuto alla causa e l’ha riconsegnata al tempo, non ha mai perso le speranze: «All’epoca, nel 1816, non fu pagata nemmeno un’oncia». Quindi, tutto il castello poggiava su fondamenta di sabbia e alla fine la giustizia si è svegliata, come nelle favole. Sì, quei terreni sono demaniali: ora lo sappiamo con certezza. Ora che il Congresso di Vienna è una pagina nei libri di storia, ora che i Borbone sono solo un rimpianto per il coro dei nostalgici, ora che anche i Mille e pure il Fascismo sono nell’album della nostra storia. Quelle terre sono demaniali: allora, nell’Ottocento erano il rifugio in cui la gente metteva il grano ad asciugare e dove venivano scavate grandi buche coniche, le nivere, per immagazzinare la neve; oggi le terre damaniali sono in buona parte trasformate in un parco.

Già che ci sono, potrebbero metterci anche una lapide: con i nomi di tutti i giudici e gli avvocati che hanno seguito questa storia. E, forse, potrebbero pure dichiarare la causa monumento nazionale. Se non altro, per evitare che si ripeta.

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