Il Cavaliere va sotto i ferri e l'Italia dell'odio festeggia

Siamo il Paese dove tutto è lecito: infangare il premier, intercettare a valanga e insultare il Papa. E hanno il coraggio di parlare di regime. Il paragone con le rivolte in Tunisia ed Egitto non regge: lì ci sono vere dittature

Il Cavaliere va sotto i ferri e l'Italia dell'odio festeggia

«Quando è moda, è moda» canta­va Giorgio Gaber. E l’ultima moda pre­scrive: tutti in piazza. L’agenda è fitta, la manifestazione di oggi, festa della donna, è solo la prima di una lunga se­rie. Si va in piazza per difendere la cul­tura, per ribadire la dignità delle don­ne, per salvare la scuola, per chiedere maggiore moralità, per proteggere la giustizia, per omaggiare la Costituzio­ne. Ma soprattutto si va in piazza con­tro Silvio Berlusconi, obiettivo implici­to o esplicito di quasi tutti i cortei. Lui, l’obiettivo, ha trascorso la giornata di ieri sotto i ferri, per un’operazio­ne di «restauro» alla mandi­bola resa indispensabile dall’aggressione subita a Milano nel dicembre 2009, quando uno squilibrato lo centrò con una statuetta del Duomo.

La sinistra gruppettara te­orizza la spallata. L’uso del­la piazza indignata per man­dare a casa il centrodestra. C’è qualcosa di strano o trat­tasi di normale volontà di cambiare governo? Be’, di­pende dai punti di vista. Che l’opposizione si faccia in piazza, e non nelle aule parlamentari, suggerisce due cose. La prima: il Parti­to democratico va a rimor­chio dei movimenti. Un brutto segno di crisi. Peggio­rato dalle grottesche raccol­te di firme contro il premier, dieci milioni di scarabocchi di dubbia provenienza (se non proprio taroccati) che espongono i nipotini di Ber­linguer all’ennesima figu­raccia dopo le primarie na­poletane con broglio. Ne va­leva la pena, per andare die­tro a cittadini che comun­que preferiranno, al mo­mento del voto, Vendola o Grillo o Di Pietro? La secon­da: creare una credibile al­ternativa di governo pare l’ultimo dei problemi di queste persone assillate dal destino dell’Italia. Qui con­ta abbattere «il tiranno». Peccato non ci sia «il tiran­no ». Bisogna avere due spes­se fette di prosciutto sugli occhi per non vedere che l’Italia, al netto di tutti i suoi problemi, è un Paese libero, democratico, ricco, colloca­to all’interno dell’Occiden­te faro dei diritti umani. Non viviamo nel Paradiso terrestre, d’accordo. Ma quale sistema, rispetto a quello capitalistico, garanti­sce maggior tutela dell’indi­viduo? Nessuno. Eppure, nell’universo caricaturale in cui vive parte dell’opposi­zione, la democrazia italia­na è in pericolo, il Paese è ormai del Terzo mondo, il razzismo dilaga quasi quan­to il maschilismo e qualcu­no si deve dar da fare per metterci una pezza, anzi: una piazza.

Quando è moda, è moda. E la moda della piazza, già discutibile, diventa assai sgradevole se fa riferimento ad altre piazze della vicina Africa. Nessuno è così folle da proporre un paragone di­retto tra Libia, Tunisia, Egit­to e Italia. Ma le allusioni fioccano, e sono di un cini­smo ributtante. Come certi striscioni visti in occasione della manifestazione Se non ora quando ?, in teoria dedicata alle donne. A esempio questo: «Ben Alì è già a Dubai, Berlusconi quando te ne vai?». O come certi cori intonati dal cosid­detto Popolo viola per chie­dere le dimissioni del presi­dente del Consiglio: «Dopo Mubarak, Silvio Berlusco­ni».

I giovani tunisini, egizia­ni, libici hanno conosciuto solo la dittatura con relati­va soppressio­ne di diritti, co­m e quello di pa­rola, che a noi appaiono tanto elementari quanto indiscu­tibili. Chi prote­sta, a Tripoli co­me al Cairo, lo fa rischiando la vita, sua e dei suoi familiari. Quando arroto­la gli striscioni, o ripone il mi­tra, torna spes­so­in quartieri fa­tiscenti, alme­no per il nostro standard. Vede­re quindi un ita­liano, più o me­no benestante, più o meno pa­sciuto, più o meno soddi­sfatto, comunque libero, paragonarsi a chi è stato op­presso per quarant’anni e passa, può suscitare leggeri conati di vomito.

In Italia, del resto, si può fare tutto (tranne, forse, fu­mare). Si possono imbasti­re campagne stampa fonda­te sulla fuffa e poi accusare gli altri di mettere il fango nel ventilatore. Si può sput­tanare tutto il governo e poi lamentarsi dell’immagine dell’Italia all’estero. Si può intercettare chiunque, sce­gliere quali persone inquisi­re e poi gridare all’attacco contro la magistratura. Si può fare il verso al Papa e poi stringersi a coorte intor­no a lui quando conviene. Si può occupare la televisio­ne pubblica con una sfilza di programmi faziosi e poi lamentarsi perché il pre­mier è «proprietario» di sei emittenti. Si può difendere la scuola «per tutti» e poi ne­gare il diritto di scelta alle fa­miglie che preferirebbero la paritaria ma non se la pos­sono permettere.

Si può

di­fendere la dignità della don­na e poi negarla a chi ha pre­so alla lettera lo slogan fem­minista: «l’utero è mio e lo gestisco io».

Si può fare tutto. Tranne sottrarsi alle mode. Perché quando è moda, è moda.  

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