Cultura e Spettacoli

In un cd la magia del pianista che odiava le registrazioni

di Lorenzo Arruga

Dal grembo dell’eternità, il tempo ci snocciola ogni tanto certi regali che accogliamo senza problemi, quasi fossero oggetti di antiquariato o di modernariato, da mettere da qualche parte di casa nostra, ma che a volte sono molto di più: sono segni che chiedono la nostra capacità di interrogarci e di riflettere. In questi giorni accade che la Deutsche Grammophon mette in commercio per la prima volta un disco suonato da Arturo Benedetti Michelangeli, con il Concerto di Schumann diretto da Daniel Barenboim e con quattro pezzi per pianoforte solo dalle Images di Debussy. Un’altra delle sue memorabili interpretazioni. In vita, a parte un’interpretazione su certe sue tasse assai diversa da quella del Fisco che lo costrinse a star lontano dall'Italia, furono tutte in genere discusse dalla critica e poi accettate trionfalmente.
Michelangeli, nato a Brescia nel 1920 e morto nel 1995 nel Canton Ticino dove abitava in un piccolo paese, è un interprete mitico, con lui i primi brividi d’emozione serpeggiavano in teatro o nella sala da concerto già qualche minuto prima dell’entrata, tanta attesa sapeva suscitare; una silhouette inimitabile quando sedeva al pianoforte, col fazzoletto nero posato appena sopra lo strumento, immobile salvo le mani, la faccia impenetrabile con i baffetti scuri e lo sguardo lontano. Provocava deliri, rapimenti: una leggenda. E il bello è che per aver tutto questo non calcolava nulla, se ne stava anzi per conto suo, riservato e schietto: era semplicemente così.
Non so se ne sarebbe contento. Non che paragonasse le sue incisioni fra di loro. Non lo faceva neanche fra i concerti: ogni volta ci lavorava in modo diverso: «Non ho memoria: incomincio sempre da zero», diceva; e così infatti si intitola il saggio di Gian Paolo Minardi, che l’ha conosciuto bene, nelle note di copertina. Come interprete, era sempre in movimento. Il culto per la perfezione che gli viene sempre attribuito, valeva per la perfezione esecutiva, non perché pensasse di raggiungere dei modelli immutabili. Il fatto è che però, semplicemente, le sue rare incisioni, gli sarebbe piaciuto abolirle. Il suono nudo, vero, dal vivo gli interessava, in quello credeva.
Sul suono aveva un culto. Un’ossessione. Da buon amante delle auto da corsa, Michelangeli sapeva che i capolavori della tecnica van controllati fino all’ultimo minuto. E come i buoni vini van portati nel luogo di consumazione qualche tempo prima, mandava il pianoforte qualche giorno sul palcoscenico del concerto ad acclimatarsi. Gli tennero segreto che una volta, dietro le quinte del Teatro di Bologna, la sarta di palcoscenico, contenta d’aver trovato finalmente una superficie adatta, fu vista mentre vi stirava sopra i costumi delle ballerine.
Il pianoforte non ha la possibilità fisica di mutare i caratteri della nota quando si abbassa il tasto, ma lui riteneva che il pianista lo dovesse suonare come se tutto, ampiezza, colore, timbro, senso intimo, struttura, messaggio psicologico, pensiero, bellezza, dipendessero dal suo tocco. E il tocco non nasceva principalmente da esercizi tecnici, che pure erano necessari, strenui, ma dal pezzo che si suonava: già nel primo tocco doveva esserci il segno dell’interpretazione e lo si doveva sentire. Chi l’ha sentito dal vivo sa benissimo che questo irrazionale prodigio accadeva. Ma a quella messa a punto ossessiva della tecnica voleva venisse sottoposto ogni dettaglio della registrazione.
Aveva certamente qualche ragione. Ma non tutte. Perché, ad onta delle sue innumerevoli precauzioni, adesso ci accade di ascoltarlo in registrazioni catturate furtivamente con apparecchietti, e magari siamo su un’auto rumorosa. E, a beffa della fisica e di noi poveri umani, il suo suono trapela, nitido, ricco, splendente, e lo si riconosce.
Il disco degli inediti che ora esce tecnicamente è di qualità buona; così si apprezza la conversazione libera e intensa con il direttore in Schumann e, in Debussy, l’esser riuscito a toccare quel suono che è insieme istante e storia di immagini e di suoni.

E credo che lui non l’avrebbe confessato mai, nel suo scontroso pudore, ma quell’inizio del secondo tempo nel concerto è proprio felicità.

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