L’affanno e il nervosismo del Corriere della Sera per rimediare il proprio filoprodismo pre-elettorale, il disprezzo del Financial Times per il programma e gli alleati di Romano Prodi fanno intendere quanto la situazione politica italiana sia ben lungi dall'essere stata risolta dal voto del 9 e del 10 aprile. Con le elezioni politiche del 2006 il cosiddetto piccolo establishment italiano (grandi imprese indebitate più grandi banche dalle fragili base societarie e grandi giornali al seguito) ritenevano di poter sfasciare definitivamente le basi della rivoluzione berlusconiana, cioè della sua capacità di rappresentare le classi medie e produttive nazionali senza filtri elitari.
Da questa operazione avrebbe dovuto emergere il ruolo di Prodi come mediatore delle spinte dei vari gruppi oligarchici (dal piccolo establishment alle nomenklature sindacali alle potenti corporazioni come la magistratura). Il leader della cosiddetta Unione avrebbe usato il disfacimento del centrodestra per dominare la consistente ala estremistica del suo schieramento.
Anche molti ambienti internazionali (da qui le delusioni di Economist e Financial Times) erano affezionati all'ipotesi. Comprensibilmente. Una nazione che si autoesclude dalle scene internazionali non può dispiacere agli osservatori stranieri: se in Spagna ci fosse uno come Luigi Abete che diventa presidente di una banca solo per venderla a un nostro istituto, se in Francia vi fosse un imprenditore come Andrea Pininfarina che propone l'autoesclusione del proprio Paese dal G8, gli operatori italiani e persino la nostra così poco patriottica stampa ne sarebbero entusiasti.
Quando qualche ascaro del piccolo establishment, magari politicamente collocato nel centrodestra, dice che in queste elezioni hanno perso sia Prodi sia Silvio Berlusconi, non capisce la portata dello scontro. Né comprende l'operazione compiuta dallo stesso Pierferdinando Casini che è stato leale fino alla fine alla cosiddetta Casa delle libertà, raccogliendo proprio grazie a questa scelta un importante risultato elettorale.
Se si sbaglia l'analisi, non si è in grado d'indicare una linea d'azione efficace. Quel che oggi è in ballo è la legittimazione definitiva del centrodestra come una forza portante della Repubblica: la fine dei tentativi di eliminare questa realtà in campo da oltre dieci anni per via giudiziaria o economica, di comprimere l'espressione della politica italiana nei giochetti delle oligarchie. Prodi ha fallito la missione e ora s'ingarbuglia tra atteggiamenti da capitan Fracassa (Se ne vada a casa Berlusconi. Sono il grande vincitore di queste elezioni) e da sor Farfuglia (Tasserò i bot, non li tasserò; sono con Hamas, sono contro; sulla Tav decido io, decide la Val Susa; la Legge Biagi la manterrò, la liquiderò). Intanto, le forze più responsabili del centrosinistra si rendono conto sempre più che vi è l'esigenza nazionale di costruire alcune intese che consentano di agire rapidamente nell'interesse del Paese e insieme di costruire le basi per una democrazia finalmente compiuta.
Le parole di Carlo Azeglio Ciampi, in questi momenti, contro la demonizzazione di Berlusconi, le stupidaggini sui conflitti d'interesse, le leggi ad personam, sono, infine, un balsamo per l'anima. Certo, ci sono ancora tante manovre in campo. Ma se il centrodestra rimarrà legato alle ragioni della sua affermazione «impossibile», anche le prossime manovre saranno smontate.
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