Il centrodestra non deve temere i capricci Udc

Francesco Damato

Credo che Pier Ferdinando Casini sappia fare di conto per capire da solo, senza bisogno delle spiegazioni che Gianfranco Fini si è vantato qualche giorno fa di avergli dato, che nelle ultime elezioni il suo partito ha preso poco più di un quarto dei voti di Forza Italia per poter contendere a Silvio Berlusconi la leadership della coalizione di centrodestra. Dove peraltro va onestamente riconosciuto che l’ex presidente della Camera intende rimanere, anche a costo di perdersi per strada Marco Follini, da lui allontanato l’anno scorso dalla segreteria dell’Udc per contrastarne il disegno di rompere l’alleanza con l’allora presidente del Consiglio.
Lo stesso Clemente Mastella, che pure ha cercato di metterlo recentemente in difficoltà parlando di un accordo propostogli da Casini verso la fine della scorsa legislatura per smontare il bipolarismo e creare insieme una terza forza grazie al sistema proporzionale che stava per essere ripristinato, ha rivelato che alla stretta finale l’allora presidente della Camera preferì rimanere dov’era. Il suo progetto, sempre secondo le presunte rivelazioni di Mastella, si rivelò quello non di rovesciare Berlusconi ma di succedergli all’interno della stessa coalizione. Egli immaginava probabilmente un risultato delle elezioni d’aprile diverso da quello che è stato.
In effetti, se ci fosse stata una vittoria del centrodestra, mancata solo per un soffio, Casini avrebbe potuto cercare di far salire Berlusconi al Quirinale per succedergli a Palazzo Chigi, o tentare lui stesso la scalata al colle più alto di Roma, magari immaginando per Fini la guida del partito unitario del centrodestra. Se fossero state invece confermate le previsioni di una bruciante sconfitta, egli avrebbe potuto cercare di attribuirne la responsabilità principale a Berlusconi e delegittimarne la leadership. Ma la sconfitta della coalizione non è stata per niente bruciante. E, per quanto abbia perso quasi nove punti tra le elezioni del 2001 e quelle del 2006, Forza Italia si è confermata con il 24 per cento dei voti il primo partito d’Italia, e non solo del centrodestra. L’Udc invece, per quanto raddoppiata grazie anche alla fusione intervenuta dopo il 2001 con il Cdu di Rocco Buttiglione, si è fermata al 6,8 per cento.
Di fronte a questi numeri, anche se Casini si è proposto, come ha detto qualche giorno fa, di «rinegoziare tutto la prossima volta» con i suoi alleati, quindi - ripeto - senza lasciarli o cambiarli, una sua successione a Berlusconi è irrealistica. Il pallino è rimasto nelle mani dell’ex presidente del Consiglio, che può rinunciarvi solo spontaneamente, per generosità o stanchezza. Casini per primo ha detto di non credervi, lasciandosi tuttavia scappare con poca eleganza di «non voler morire berlusconiano», come una volta dicevano dei democristiani i loro avversari, ma anche gli alleati più insofferenti o infidi.
Berlusconi ha opportunamente evitato, almeno in prima persona e sino a questo momento, di restituire questa stecca.

Egli l’ha forse messa nel conto di una partita anch’essa utile in fondo alla causa della sua coalizione perché Casini, per le sue origini politiche e frequentazioni, potrebbe intercettare meglio di lui quadri e voti ex democristiani che la Margherita di Francesco Rutelli sarebbe destinata a perdere se non riuscisse a sottrarsi all’ultimo momento alla confluenza suicida in quel nuovo partito che costituirà l’ultima, camaleontica trasfigurazione del Pci, altro che «il nucleo riformista della politica italiana» immaginato da Romano Prodi.

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