La politica estera, questa misconosciuta. In questa campagna quasi non se ne è parlato. Eppure, è un tema rivoluzionario, e se vincerà il centrodestra cambierà subito, perché su di essa i due schieramenti sono lontani un oceano. Un sussulto tellurico lo si è avvertito ieri a Savona, con una decisa incursione di Berlusconi in questo campo: «Israele sarà la prima tappa dei miei viaggi nel mondo da premier - ha detto - per festeggiare il sessantesimo anniversario dell’unica democrazia del Medio Oriente, la sua valorosa battaglia di sopravvivenza, il suo spirito morale». Una sola incursione in politica estera, proprio là dove la sinistra da anni piccona e destruttura fino alla delegittimazione di Israele. La gente in piazza ha reagito con entusiasmo alla scelta di affrontare il più controverso fra i temi: appena si restituisce alla politica estera un valore morale, questa scelta coinvolge e accende un riflettore sulla nostra stessa identità; appena si rovescia la stantia, ottusa divisione terzinternazionalista fra buoni anti capitalisti e cattivi amici degli americani, la gente è pronta a capire che oggi il mondo si trova di fronte a conflitti totalmente nuovi, in cui i buoni sono quelli che stanno dalla parte della democrazia, delle società in cui la donna non è schiava e dove non si torturano i dissidenti. L’esperienza di questi anni, per chi non è cieco, ha mostrato che nel bruciare le bandiere americana e israeliana c’è soprattutto una forma di disprezzo inconsulto verso noi stessi. Quindi, peccato che si sia parlato poco di politica estera: parlarne significa vincere la paura di difendere la nostra civiltà democratica.
Dal Medio Oriente ho visto per due anni impallidire e avvizzire l’immagine dell’Italia: il modo esitante con cui ha gestito le missioni internazionali; la fretta di ritirarsi dall’Irak; la passeggiata con gli hezbollah a cui il ministro D’Alema può dedicare un’alzata di spalle solo se pretende di ignorare la storia di questo gruppo terrorista; le accuse a Israele di usare una «forza sproporzionata»; il vituperio incessante del recinto di sicurezza che ha fatto calare il terrorismo suicida del 90 per cento; l’illusione di rabbonire Ahmadinejad che prepara l’atomica; la continua accusa di responsabilità esclusiva di Israele e mai dei palestinesi; il vantato rapporto con la Siria, Paese così estremista da essere contestato persino da molti membri della Lega Araba. Ma l’Europa ha già cambiato strada: l’identità di contrapposizione agli Stati Uniti basata sull’asse Chirac-Schroeder è stata superata. Sarkozy e Merkel rappresentano un’Europa che può accordarsi con gli Usa sul controverso ombrello antimissile senza irritare troppo Putin. L’Iran nucleare e la ripresa di Al Qaida sono un problema di sicurezza comune a tutti. Anche i Paesi arabi sono impauriti di fronte alla strategia iraniana, e dodici fra di loro ora stanno mostrando interesse per il nucleare: un’Europa che dia più sicurezza nella difesa contro il terrorismo internazionale può creare una frontiera più protetta ed evitare l’incerto scenario dell’escalation mediorientale. L’aver ignorato il significato e il pericolo dell’islamismo aggressivo e aver preferito dare addosso all’America e a Israele, ha indotto in Italia, in questi ultimi due anni, un’ottusità morale che ci ha impedito di capire dove sta il bene e il male. La prossima politica estera italiana, se il Popolo della libertà vincerà, dovrà riprendere il filo dei diritti umani per collegarlo a una politica di sicurezza che richiederà uno sforzo militare europeo: sarà una novità non da poco. Fronteggerà, si può sperare, con fermezza la cultura dell’odio; boicotterà i leader che se ne fanno portavoce; chiederà conto a tutti i regimi della sorte dei dissidenti; e speriamo anche che agirà alle Nazioni Unite come un Paese consapevole che l’Onu è drogato dall’inflazione di condanne (un terzo di tutte quante) contro Israele mentre per il Darfur si fa poco o niente.
Fiamma Nirenstein
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