Certo, la ricerca conta Ma troppo spesso non vale il suo prezzo

Caro Granzotto, lo stato di instabilità permanente dell’azienda Italia subisce un altro scossone dalla protesta, di cui pochi parlano, dei ricercatori che minacciano o attuano (non si capisce bene) uno sciopero bianco contro la riforma del ministro Gelmini. Io non conosco il merito della questione, ma ricordo d’aver sempre letto che la ricerca è tutto, e senza di essa un Paese non può reggere alla sfida della globalizzazione. Mi pare dunque che anche con le migliori intenzioni una riforma che punisca i ricercatori non sia in linea con le ambizioni riformatrici di questo governo.
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Le nostre settantotto università soffrono tutte di elefantiasi, caro De Bartolomei, ridondando di facoltà e di corsi di laurea. Ce ne sono per tutti i gusti, dalla «Scienza della pace» alla «Scienza del fiore e del verde», dalla laurea in «Patologia suina» a quella in «Produzioni vegetali», da quella in «Cure e allevamento del cane e del gatto», a quella in «Scienza della mediazione linguistica per traduttori dialoghisti cinetelevisivi». All’ex glorioso Politecnico di Torino c’è perfino un corso di laurea in «Ingegneria del cinema». Tutto questo fiorire di corsi ha richiesto un corrispondente fiorire di docenti, il grosso dei quali è costituito dai ricercatori. Costoro, però, non avrebbero il compito di insegnare (e fare gli esami), ma in mancanza di meglio glielo si è attribuito. Inevitabile dunque che mettendo mano alla riforma universitaria (e intendendo tra l’altro abolire i corsi di laurea inutili o decisamente ridicoli), il ministro Gelmini abbia affrontato anche il problema dei ricercatori. Che domani, con la riforma, trascorsi sei anni o diventano per concorso docenti associati, o rimangono a tempo determinato ove gli rinnovino il contratto, o cambiano mestiere. Tenga presente che i ricercatori in servizio sono circa 25mila costituendo, seppure di straforo, il 40 per cento dei docenti universitari. Aggiungiamo pure, per la completezza dell’informazione, che all’ateneo dove presta servizio, ogni ricercatore costa qualcosa come 200mila euro annui. Con quale risultato? Ebbene sappia, caro De Bartolomei, che, nonostante un così poderoso apporto di cervelli, nella classifica delle 500 migliori università del mondo, stilata dalla Word University Rankings, il primo ateneo italiano (Bologna) compare solo al 147º posto. Quello successivo, La Sapienza di Roma, al 205º. Al 286º posto c’è invece il Politecnico di Milano e l’Università romana di Tor Vergata, per dire, è alla 401ª posizione. Ebbene sì, quanto a insegnamento universitario, in Europa siamo penultimi, seguiti solo dal Portogallo.
E veniamo alla ricerca. Certo che è necessaria, certo che va sostenuta. Ma non se ne deve fare un mito, perché c’è ricerca e ricerca. Ora le riporto i risultati di una ricerca dell’Università di Trento (402esima posizione). Scopo dei ricercatori era di approfondire e statisticizzare le abitudini private delle coppie. In particolare il perché, il come e il quando lui o lei emettono quei rumorosi gas intestinali altrimenti chiamati flatulenze. Questi i risultati: l’89 per cento degli uomini italiani emette rumorosamente, diciamo così, in presenza della propria partner; il 12 per cento si lascia andare entro il primo mese di rapporto; il 63 per cento entro il primo anno. Solo il 12,7 per cento delle donne fa altrettanto.

Mi dica, caro De Bartolomei: ritiene che quella ricerca abbia fatto l’Italia più ricca, più ferrata nell’affrontare le sfide del terzo millennio? Ritiene che quelli per la ricerca sulle emissioni di gas intestinali nel privato siano soldi (dei contribuenti) spesi bene?

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