
"Il lieto fine che ci consola dell'esistenza quotidiana si può apprezzare solo nell'arte, la vita è delusione". È Robert Musil, ma lo ritroviamo citato nelle prime pagine di Desiderare, e diventa subito anche la voce di Giorgio Vallortigara, il nostro più grande neuroscienziato che con questo romanzo d'esordio (pubblicato da Marsilio) decide di fare letteratura. Sì, letteratura, e non vezzo, non un'ambizione mal riposta, come fanno molti, quasi tutti. Piuttosto per mettere in scena la verità più scomoda: la vita non consola, il desiderio è un inganno, invecchiare è terrificante, e il cervello, che all'inizio è molle (vi dirò dopo cosa si intende), con l'età si indurisce, si secca, perde ogni capacità di cambiamento, come il resto del corpo, e anche peggio.
Quella voglia, quella voglia di vivere, quella voglia che c'era allora chissà dov'è, cantava Vasco. Era nel cervello molle. Vallortigara intreccia due piani narrativi: da una parte Itzhak, storico della scienza (e in parte alter ego di se stesso, sebbene Giorgio si divida in più personaggi, per chi lo conosce), trascinato in una vicenda che comincia in una festa a Brighton, tra apparizioni, sparizioni, identità incerte, e la figura enigmatica di Vittorio che morto non lo è mai del tutto o forse sì, e lascia tracce come in un thriller. Dall'altra parte la ricostruzione di Ravenscroft, la dimora ottocentesca degli Amberley, con Lady Kate e Douglas Spalding, il vero precursore di Lorenz (poco noto, messo in disparte, ma non da Vallortigara, che ne fa il perno di questo romanzo, e un romanzo nel romanzo), quello che scoprì che i pulcini ti seguono non per affetto ma per biologia, per quell'imprinting che è il modo con cui la natura scrive dentro di noi la dipendenza dall'altro. Al centro, in questo avvitarsi di pensieri e coscienza, ossessivo come una pulsazione, torna sempre lui: il cervello molle. Vallortigara lo fa dire ai suoi personaggi senza perifrasi: "Comprendo tutti i vantaggi della plasticità cerebrale estrema, il cervello molle di una creatura statu nascenti", e subito dopo rovescia l'idillio: "In questo caso avreste ottenuto sì un cervello molle, ma nel senso di informe: una poltiglia. In assenza di struttura, una mente così fatta non sarebbe capace di apprendere alcunché". È qui che il romanzo smette di essere scienza e diventa tragedia shakespeariana, ma dentro ci sono anche Marcel Proust, Samuel Beckett, io: se davvero potessimo tornare indietro, se davvero ci regalassero di nuovo la morbidezza infantile, non avremmo un vantaggio ma la catastrofe, la cancellazione di noi stessi.
Vittorio, amico e spettro, incarna proprio questo enigma: "con il cervello molle poteva imparare o reimparare praticamente tutto con gigantesca facilità", eppure da quella facilità nasce il rischio della dissoluzione. Patrick de Gray, lo scienziato ambiguo, promette la scorciatoia: "Mi disse che Vittorio c'era riuscito. Lui e Patrick avevano trovato il modo di riaprire il periodo critico, di rendere il cervello nuovamente molle". Ma subito il narratore ci mette in guardia: "Abbiamo capito come riuscire ad avere nuovamente un cervello molle, come quello di un bambino appena nato, ma il nostro espediente si è rivelato imperfetto".
E allora arriva Fielding, altro personaggio, il quale incarna la scena più disturbante del romanzo: il trapano conficcato in fronte, non un gesto folle, piuttosto l'estrema conseguenza di questa ossessione, farsi letteralmente un cervello molle. "Patrick de Gray ha osato, ha osato davvero, come Vittorio, di provare a farsi il cervello molle" e dunque "come fronteggiare il pericolo della riscrittura e quindi della cancellazione dei ricordi durante la fase in cui il cervello torna plastico e molle?"
È qui che il libro svela la sua doppia natura: romanzo e trattato insieme. Ci mostra come l'invecchiamento non sia un fatto biologico secondario: è la trama stessa della vita e anche la sua tragedia senza soluzione. Invecchiare significa diventare rigidi, perdere la capacità di cambiare, e soprattutto perdere il lusso di desiderare senza autocensura. Il desiderio adulto è sempre consapevole della propria rovina, e Vallortigara ce lo mostra senza sentimentalismi, anzi con un'ironia leggera, capace di trasformare la tragedia in paradosso: "Ma non hanno voluto fargli il cervello molle".
Il risultato è sorprendente (se fosse stato scritto da Philip Roth sarebbe già in Adelphi, con la quale Vallortigara pubblica i suoi saggi, però essendo vivo non può pubblicare un romanzo Adelphi, meno male): un'opera che intreccia scienza, storia e desiderio senza che nessuno dei tre domini sugli altri. Ravenscroft e i suoi pulcini diventano metafora incarnata, Brighton e Capri luoghi di apparizioni e scomparse, e il cervello molle non è più soltanto un concetto scientifico, è la figura stessa della nostra fragilità.
Vallortigara dimostra che la letteratura non è l'opposto della scienza, è il suo prolungamento, e che non c'è bisogno di inventarsi l'anima quando basta un neurone, un imprinting, un desiderio per mostrare l'abisso. E se "la vita è delusione", allora Desiderare è la prova che la letteratura può trasformare quella delusione in arte. E l'arte, come sappiamo, è un'altra illusione. Ma in senso leopardiano, e al riguardo cito uno dei pensieri di Giacomo che cito sempre: "Pare un assurdo, eppure è esattamente vero, che essendo tutto il reale un nulla, non vi è nulla di reale né altro di sostanza al mondo delle illusioni".
È un romanzo così bello che speriamo non lo candidino allo Strega, o forse sì: sarebbe una meravigliosa occasione per Giorgio vedere da vicino, poter studiare così tanti cervelli molli che anziché vedere la tragedia nel desiderio che si annichilisce, hanno ricevuto fin da piccoli solo l'imprinting di desiderare un premio per la propria insignificanza.