Non si capiranno mai. Marchionne è pragmatico. La Cgil è finto ideologica. Parla degli operai, ma difende soprattutto il suo apparato di burocrazie, interessi, impalcature. Non sono opposti, ma rivali, concorrenti. In mezzo c’è l’uomo, quello che sta alla catena di montaggio, il singolo individuo che fa i conti con la fatica, i soldi, il lavoro.
La sensazione è che Marchionne conosca i metalmeccanici della Fiat meglio del sindacato. Questo non è un merito di Marchionne. È soprattutto la sconfitta della Cgil. L’Americano fa il suo lavoro, i suoi avversari ne fanno un altro, ma è quello sbagliato. Quanti anni sono che la Cgil è sempre più un’azienda di servizi, che fa i soldi con la formazione e le dichiarazioni dei redditi? Da quanti anni la Cgil fa politica? Da quanti anni non fa più sindacato? Troppi.
Forse se si è arrivati a Pomigliano è anche per questo. C’è il passato. C’è il ricordo di quando nelle fabbriche del Sud si diceva: manderemo gli Agnelli a zappare. C’è l’operaio mai visto come individuo da tutelare, ma come soggetto politico o, peggio, come strumento della rivoluzione. C’è una classe dirigente sindacale che non ha metabolizzato la fine del ’900. Ci sono decenni di fallimenti. Ma i sindacalisti non rispondono agli azionisti e neppure agli elettori, così quella classe dirigente resta sempre uguale a se stessa. Si riproduce per cooptazione. Cambiano i volti, non la cultura. Eterni irresponsabili. Se un manager non funziona lo cacciano. Se un partito deraglia perde consensi. Il sindacato è invece una società chiusa. È fondata sul principio della tradizione. Non riconosce l’errore. È immutabile e se il mondo cambia la colpa è del mondo. Marchionne vince perché dissacrante. Non difende un sancta santorum.
Cosa ha fatto la Cgil in tutti questi anni? Non ha vissuto. Non ha capito che il soggetto più debole erano i precari. Se ne è accorta tardi. Ha continuato a tutelare quelli che già erano tutelati. Non ha visto che si stavano delineando due repubbliche del lavoro: una di garantiti, l’altra senza reti. Ha considerato il precariato un’anomalia. Non si è battuta per dare ai lavoratori che rischiano di più un salario più alto. È successo il contrario: chi più rischia, meno guadagna.
Ha sconfessato il merito, come una sorta di peccato mortale. È quello che è successo per esempio nella scuola. Quando si parlava di premiare gli insegnanti migliori la risposta era sempre la stessa: pochi soldi a pioggia per tutti, ai bravi, ai mediocri e ai fannulloni. I salari sono rimasti bassi, per tutti. L’importante era difendere il comandamento per cui bidelli e professori sono tutti e due proletari della cultura. Stesso prestigio e stessi stipendi.
Il contratto nazionale di lavoro come linea del Piave. La Cgil non lo ha fatto per i lavoratori, ma per salvaguardare il suo potere politico: l’oligopolio della rappresentanza. Non importa che l’operaio massa sia un’invenzione. Non importa che il salario reale a Torino non sia lo stesso di Termini Imerese. Non importa il costo della vita. Non importa sapere quanto costa il pane, la casa, la baby sitter. Tutto è uguale. Tutto è indistinto. Nord e Sud non esistono. È lo sguardo deforme di un’Italia vista solo a tavolino, studiata su vecchie mappe del secolo scorso.
Cosa ha fatto la Cgil? Ha svilito e inflazionato lo sciopero generale, scendendo in piazza per ogni mal di pancia extrasindacale o per celebrare il rito spettacolare delle sante masse. Lo sciopero come concerto rock, come rappresentazione, come gita fuori porta, come la maratona di New York.
Il sindacato che non è più mezzo ma fine. I lavoratori passano, la Cgil resta. Fino a ibernarsi. E quando non l’ha fatto ha ripudiato la sua ragione sociale. Cos’è oggi il sindacato? Un’impresa e un ufficio di collocamento, che nei casi peggiori diventa caporalato.
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