Cgil, la casta dei signor no che costa 900 milioni l’anno

Trecentomila delegati e un fatturato da un miliardo di euro: è il business del sindacato guidato da Epifani

Incredibile ma vero: adesso che la Cai si è ritirata, la Cgil è pronta a ricominciare la trattativa. Come un pokerista da quattro soldi che vuole vincere facile scegliendo lui con chi giocare, il sindacato si siede di nuovo al tavolo Alitalia dopo aver costretto chi c’era prima all'abbandono. Guglielmo Epifani lo ammette con la faccia più tosta del mondo: «Siamo pronti, se il mediatore è Fantozzi». E non il governo o la cordata di imprenditori italiani messi assieme da Silvio Berlusconi.
La Cgil, insomma, vuole ribadire che in Italia chi comanda è lei. Che non è semplicemente riconoscere che «senza il sindacato non si governa»: l'esecutivo e la Cai sanno bene che Alitalia non riprenderà quota senza il consenso dei lavoratori. Ma questo è il sindacato dei veti contrabbandati come «concertazione», del prendere o lasciare, delle battaglie di retroguardia a vantaggio esclusivo del proprio interesse. Un sindacato di «signornò» che conoscono le leggi del mercato come Prodi l'inglese, hanno perso per strada il senso del bene comune e si muovono per difendere unicamente i propri privilegi e il proprio potere d'interdizione.
Una vita da mediano: rompere il gioco altrui, palla in tribuna e mai un rilancio. Magari non si vince, ma di sicuro non si perde. Magari non ti corrono dietro attrici e ballerine, però si fa comunque una bella vita, comoda, fatta di distacchi, viaggi, grandi fumate di sigari, trattative sempre massacranti e discussioni sempre estenuanti. Lavorare manco a parlarne, ma lo stipendio è garantito. La Cgil ha circa 300mila delegati: tre volte più dei carabinieri. E costano al Paese la bellezza di quasi 900 milioni di euro l’anno.
La Cgil ha un giro d'affari vorticoso, sottolinea Stefano Livadiotti nel libro «L’altra casta». Secondo un’inchiesta pubblicata dall’Espresso nel 2007, senza essere smentita, il fatturato è di un miliardo di euro. Nel 2006 gli iscritti hanno versato 331 milioni di euro per le quote. Poi si sfruttano largamente i nuovi business inventati a cadenza regolare. I Caf per esempio, i Centri di assistenza fiscale: compilare le dichiarazioni dei redditi consente al sindacato rosso di incassare circa 40 milioni di euro l'anno. Oppure i patronati, che di milioni ne valgono 82 (dati del 2004) oltre a 450mila nuove tessere, secondo i calcoli di Giuliano Cazzola. Ne servono tanti, di soldi, per puntellare il carrozzone dei Mister No. Ma anche per conservare il loro potere di veto: nel 2002 la Cgil spese oltre 50 milioni di euro per ammassare i tesserati alla manifestazione romana in difesa dell'articolo 18.
Dicono di voler tutelare gli interessi del Paese, ma i loro iscritti sono una piccola parte dei lavoratori, e il risultato è che una minoranza impone i propri diktat alla maggioranza. Metà delle tessere sono di pensionati, gente che non lavora più ma versa immancabilmente la quota mensile: in Francia e Germania i dipendenti a riposo non superano il 20 per cento, in Italia sono un salvadanaio e un canale di reclutamento. Metà dell'altra metà sono tessere di dipendenti pubblici. Significa che appena un quarto proviene dal sistema produttivo, una fetta marginale e destinata ad assottigliarsi ancora, con la riduzione del numero di operai e la crescita del settore dei servizi. L'età media è di 44 anni e soltanto il 28 per cento è laureato. Basterebbero questi dati per spiegare l'istinto conservatore di Epifani & C.
Come per gli altri sindacati la base non è volontaria ma iscritta automaticamente. I leader non vengono eletti, col rischio di poter essere mandati a casa, ma cooptati e quindi insediati a vita, pratica tipica dei regimi non democratici. Sempre più spesso succede che i capi diano le dimissioni: non però per tornare in fabbrica, ma perché spiccano il volo verso la politica. Vanno a fare i presidenti delle Camere (Bertinotti e Marini), i ministri (Damiano), i capi partito (Ferrero), i sindaci di grandi città (Cofferati), i sottosegretari (D'Antoni), i governatori regionali (Del Turco). O magari i manager pubblici (Moretti alle Ferrovie).
C'è da stupirsi se appena un italiano su 20 si sente pienamente rappresentato dai sindacati? Se ai cancelli delle fabbriche un numero sempre più considerevole di tute blu confessa di aver restituito la tessera perché «quelli fanno soltanto i cazzi loro»? Se i capoccia della Cgil vengono fischiati ai funerali degli operai della Thyssen? Eppure Epifani e i suoi si mettono sempre di traverso a qualsiasi riforma che intacchi i loro privilegi, non sanno che cosa voglia dire la parola meritocrazia, impongono scelte che all'apparenza aiutano i meno abbienti mentre vanno a beneficio dei loro tesserati: è successo durante il governo Prodi, quando approfittarono della fragilità del Professore per volgere a proprio vantaggio la riforma dell'Irpef e quella delle pensioni minime.
Questo sindacato di pensionati ha la pretesa di immaginare il futuro impegnandosi in battaglie di retroguardia, si preoccupa dei diritti acquisiti lasciando senza tutela precari e giovani, per i quali ritiene che basti esibire Piero Pelù al concerto del Primo maggio.

È lo stesso sindacato che per anni ha fatto il bello e cattivo tempo in Alitalia e adesso esulta perché la compagnia aerea è sulla pista del fallimento. Ma ormai per sigle e siglette varie, la difesa dei posti di lavoro è l'ultimo dei pensieri.

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