Roma «Compagni dai campi e dalle officine, prendete la falce e portate il martello, scendete giù in piazza e picchiate con quello, scendete giù in piazza e affossate il sistema». Quant’erano più semplici gli anni ’70 per i comunisti: bastava scendere in piazza, cantare Contessa di Paolo Pietrangeli, rintuzzare le intemerate dei ragazzacci del Manifesto e di Lotta Continua e vedere come il segretario Berlinguer dava la linea alla Cgil di Lama.
Insomma, si battagliava per cose concrete: salari più alti e migliori condizioni di lavoro per la classe operaia. Oggi che c’è il Pd del segretario Pier Luigi Bersani le cose sono molto cambiate. Si va in piazza ma le canzoni sono quelle di Vasco e di Jovanotti, al posto dei gruppettari ci sono dipietristi e grillini e, soprattutto, la classe operaia non c’è più. Almeno a sentire le rivendicazioni del Partito.
Sì, perché l’ultima battaglia dei democratici ha un sapore tutto mediatico. Gli oppressi del capitalismo non sono i «tradizionali» metalmeccanici, ma i lavoratori della tv: attrezzisti, cameramen e tecnici dell’Isola dei Famosi. Che vivono nell’arcipelago nicaraguense di Las Perlas, ma con qualche difficoltà giacché il rancio scarseggia, le notti in tenda sono infestate dalle zanzare e le condizioni igieniche del luogo sono lungi dall’essere ottimali.
Ed ecco che il Partito democratico ritrova la sua vecchia anima laburista, dispersa chissà dove tra i sogni kennediani di Veltroni e la realpolitik di D’Alema. «Rispettare i diritti dei lavoratori è un dovere di tutti. Anche del servizio pubblico radiotelevisivo», ha tuonato il vicepresidente della Vigilanza Rai, Giorgio Merlo, che ha chiesto alla tv pubblica di verificare se Magnolia, la società produttrice del reality, «rispetta fino in fondo i diritti dei lavoratori» e questo «a maggior ragione per un programma che fa ascolti».
Ancor più melodrammatico Vincenzo Vita, componente della Vigilanza ed esponente della sinistra del partito. «Porremo alla prossima riunione della commissione il tema dello sfruttamento dei cameramen. Le questioni poste dai lavoratori gettano una luce sinistra sulla sfavillante moda del reality».
Caspita! «Sfruttamento» è un termine che non compariva nel lessico del partito da almeno vent’anni, cioè da prima della «Svolta» quando ancora D’Alema e Veltroni credevano nella lotta di classe mentre Bersani governava la rossa Emilia. Le tirate moralistiche sul degrado dei costumi televisivi, invece, hanno continuato a far parte del bagaglio ideologico.
Eppure c’è qualcosa che non quadra a meno di non pensare la sortita come una risposta al surreality travaglio-santoriano dell’Isola dei cassintegrati. In primo luogo, il dominio di estensione della lotta. Ripercorrendo le dichiarazioni catastrofiste degli ultimi tempi, il Pd non è sembrato mai rivolgersi ai lavoratori dello spettacolo. Anzi proprio Bersani è andato a stringere la mano ai «cari e valorosi compagni operai» della Fiat di Mirafiori dicendo che «c’è gente che va a lavorare alle 5 di mattina per migliorare un salario da 1.250 euro a rischio continuo di cassa integrazione e che ha un interrogativo sul futuro del proprio lavoro». Ed era stato il mariniano Beppe Fioroni a rivendicare che «se non si parte dai redditi bassi, si rischia una crisi sociale dai risvolti imprevedibili». E la responsabile scuola Francesca Puglisi ha proposto un fondo per gli indigenti che non riescono a pagare i servizi mensa.
Ecco, il Pd di Bersani, anche dai palchi di Confindustria, ha cercato di parlare a famiglie in difficoltà e ad aziende con problemi di tenuta. Sempre proponendo ricette che aumentassero della spesa pubblica (come il vecchio Pci). Ma non s’è mai rivolto a cameramen ed elettricisti che, sebbene in difficoltà ambientali, possono contare su salari più che dignitosi (120 euro lordi al giorno).
L’iniziativa, poi, non è autentica.
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