Charles Dickens, impressioni americane e francesi

Fu il primo scrittore superstar. Il primo a dover arrivare alla chetichella per sfuggire folle osannanti, per dribblare le signore che svengono e i signori che stringono la mano ma, intanto, rosicano. Il primo a inventarsi il tour, inteso non come viaggio d’istruzione, ma come parata intellettuale che si trasformi in nuovi libri e nuovi articoli, insomma in nuovo successo e nuovo denaro. Eppure, forse proprio perché fu il primo a dedicarsi a questa attività, nel suo modo di svolgerla non c’era niente di volgare anzi, c’era un piglio intellettuale ma bonario che è la cifra del genio, quello che agli epigoni, pigiati in un festival letterario qualunque, manca del tutto.
Di chi stiamo parlando? Ma di Charles Dickens (1812-1870) che riuscì a trasformare le proprie peregrinazioni americane e francesi in vere e proprie occasioni di divismo e, contemporaneamente, a trarne ispirazioni per articoli, racconti e pungenti scritti satirici. Per rendersi conto di quanto quest’alchimia sia riuscita bene all’inventore di Oliver Twist e del Circolo Pickwick basta leggere Di viaggi e di mare (Magenes, pagg. 250, euro 15) che raccoglie appunto gli scritti vergati durante le sue peregrinazioni. E se quelli relativi all’America (1842) restituiscono una visione degli Stati Uniti d’antan di rara vividezza, quelli sulla Francia (il primo soggiorno a Parigi è del 1844) risultano fondamentali perché mai editi prima in Italia. In entrambe le sezioni del volume a farla da padrone è però la forza descrittiva del più morale dei satirici inglesi, o del più satirico dei moralisti che dir si voglia.
Dickens arriva dappertutto. Cammina per il Campidoglio di Washington come nello squallore di Five Points, il peggiore dei quartieracci newyorkesi, passa dalle terme francesi agli esplosivi battelli a vapore del fiume Ohio pieni di varia e maleodorante umanità. Trasforma una traversata della Manica verso Calais, sul postale notturno, in un viaggio epicamente comico, e il mattatoio di Parigi diventa argomento per alate discussioni etiche e morali.
Riesce in questa acrobazia letterario-odeporica grazie proprio alla sua fama, al suo essere autore di culto davanti al quale si aprono un numero incredibile di porte. Insomma, in un’epoca in cui era possibile farlo, cavalcò la tigre del successo piegandola a vantaggio dell’ispirazione letteraria. Di più, si inventò e teorizzò la figura dell’uncommercial traveller, il viaggiatore che si sposta per motivi diversi dall’interesse economico o di studio. La prima fattispecie di turista colto. E dopo averlo teorizzato lo smerciò ai suoi lettori con buonissimi risultati. C’è da dire che però quell’invenzione, anche se non era così veritiera, di certo non era merce avariata (come molti resoconti di viaggio recenti). I percorsi erano originali e interessanti, la narrazione divertente e il mondo, già ben percorribile ma non globalizzato, si poteva ancora guardare attraverso occhi e penna altrui.
Anzi, confrontando gli scritti di Dickens con certi reportage firmati anche da nomi autorevoli, l’impressione è che la spunti il vecchio «Boz».

Pur avendo «decantato» per più di centocinquant’anni, le sue pagine sono così impregnate dell’odore dei luoghi visitati che raccontano qualcosa anche dell’oggi di quegli stessi posti. Anzi dell’oggi degli esseri umani che, forse, non sono così cambiati.

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