Chatwin in viaggio verso se stesso

In un volume curato dal biografo Nicholas Shakespeare e dalla moglie Elizabeth le confessioni epistolari dell’autore. Da cui emergono gusti letterari, ambizioni, dubbi. E che smentiscono la nomea di "falsario"

Chatwin in viaggio verso se stesso

Nei suoi ultimi mesi di vita, avvolto in uno scialle e immobilizzato su una sedia a rotelle, Bruce Chatwin si lamentò con la moglie Elizabeth: «Ci sono così tante cose che voglio fare...». Aveva in mente un libro sulle guarigioni, The Sons of Thunder; un trittico di storie modellato sui Trois Contes di Flaubert; un romanzo ambientato in Asia sulla vita del botanico austro-americano Joseph Rock; un altro in Sud Africa, nel quale avrebbe esplorato i pettegolezzi e le gelosie di un villaggio; una storia d’amore, Lydia Livingstone, che tra Parigi, Mosca e New York metteva in scena la «jamesiana» famiglia di Elizabeth. Morì nel 1989, a 48 anni, con il successo appena assaporato, stroncato sul campo da gioco della letteratura mentre si apprestava a entrare per il secondo tempo. Come ha detto Tom Maschler, il suo editore inglese, a Nicholas Shakespeare, che di Chatwin ha scritto la biografia più completa e ha ora curato, insieme con la vedova, questa raccolta di lettere (Under the Sun, Jonathan Cape, pagg. 554, euro 42,75): «Di quello che considero il mio pacchetto d’autori - Jan McEwan, Martin Amis, Julian Barnes, Salman Rushdie - Bruce era quello al cui sviluppo guardavo con più interesse. Penso che se avesse vissuto, sarebbe stato il primo di tutti loro».

A più di vent’anni dalla scomparsa, svanito ormai quel fenomeno un po’ di moda e un po’ di culto che post mortem s’impadronì del personaggio come dell’opera, e attenuatosi anche il successivo revisionismo critico tendente a farne un minore con qualche talento, compreso quello pubblicitario, ma poco spessore, si può cominciare a parlare di Chatwin con il distacco critico che la sua scrittura merita. Le lettere pazientemente raccolte e selezionate per un arco di tempo che abbraccia in pratica l’intera esistenza, aiutano in tal senso: ci raccontano le sue letture e i suoi interessi, le ambizioni e i fallimenti, i dubbi e le idiosincrasie. Lo scrittore capace di cambiare vertiginosamente soggetti e argomenti (nessuno dei suoi libri è eguale all’altro per trame, situazioni, avvenimenti, descrizioni, stile persino) e di annullarsi dietro di essi, qui appare in piena luce: osservatore curioso, raccontatore inesauribile, interlocutore sempre disponibile e, naturalmente, viaggiatore instancabile, sempre più a disagio nel suo Paese d’origine, un’Inghilterra paragonata a una tomba... Il nomadismo, studiato per una vita e oggetto del suo primo e unico libro fallito e mai pubblicato, assume nelle lettere il sapore quasi bulimico di una continua corsa, per tutti e cinque i continenti, in cerca di un altrove impossibile e infatti mai trovato. Aveva fatto propria una massima di Montaigne: «Di solito a chi mi chiede il perché dei miei viaggi, rispondo che so bene da che cosa sto fuggendo, ma non che cosa sto cercando». Intelligentemente, Nicholas Shakespeare vi aggiunge questa osservazione dello scrittore vietnamita Nguyen Qui Duc: «I nomadi dell’antichità viaggiavano in cerca di cibo, rifugio, acqua; noi nomadi moderni viaggiamo in cerca di noi stessi».

Qui e là nelle lettere, un sintetico commento di Elizabeth Chatwin rimette a posto un’osservazione, corregge una data o un luogo, distingue fra una realtà e una semplice fantasia: una decina di interventi su qualche centinaio fra lettere e cartoline, troppo pochi e troppo insufficienti per reggere l’idea, come qualche recensore ha fatto, dell’eterno Bruce Chatwin «falsario», «bugiardo», se non proprio imbroglione... Ma va comunque detto che se in uno scrittore il rapporto con la verità è sempre complesso, nel suo caso è irrisolvibile, tanto per lui quest’ultima si confonde con la propria visione del mondo, nella quale correlazioni, intuizioni e personaggi rispondono a un preciso canone estetico e etico. Chatwin ha sempre mischiato reportage e narrativa, ritenendo la propria verità artistica superiore, o, in ogni caso, più interessante di quella reale. Da Le vie dei canti a Utz a Il vicerè di Ouidah, le storie che egli racconta sono così intrecciate di vissuto e di immaginato da far uscire una plausibilissima e perfettamente logica altra dimensione.

Ciò che comunque emerge dalle lettere, nello scambio con persone differenti per età, sesso, interessi, nazionalità, è l’incredibile capacità di intuire e comprendere, legare insieme e approfondire temi... Dotato di una solida cultura umanistica e di un occhio artistico straordinario, appassionato di scienze umane e di scienze naturali, Chatwin mette tutto ciò al servizio di una golosità della vita che poi troverà nella scrittura uno sfogo e una disciplina, spingendolo di là dalla narrativa contemporanea, in un campo dove i confini tradizionali si mischiano e si confondono, divengono un’altra cosa, un genere sconosciuto.

L’unico a essersi spinto sulla stessa strada, è stato il tedesco W.G. Sebald, anche lui morto troppo presto, come se un irato dio delle lettere fosse lì a punire gli scrittori troppo audaci, arrivati a rubargli il fuoco segreto della creazione...

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