Ma che bella sorpresa il Jean Giono in «noir»

Una veglia funebre in un castello di campagna, la servitù che fa le veci della vedova, ormai sprofondata nel sonno, il caffè forte e ben zuccherato che gira e poi, perché no, un po’ di paté di selvaggina del vecchio padrone a cui nel pomeriggio hanno chiuso gli occhi, del pane abbrustolito, un bicchiere del suo vino: la notte è fredda, e lunga, il fuoco è acceso, si mangia, si parla, si sparla, il modo migliore per esorcizzare la morte. Le anime forti, il romanzo che Jean Giono scrisse nel 1949 e che ora esce per la prima volta in italiano (Neri Pozza, pagg. 286, euro 13,50, traduzione esemplare di Riccardo Fedriga) comincia così, una chiacchierata fra donne davanti al camino: la più vecchia, Thérèse, ha quasi novant’anni, poi c’è Rose, già sposata, già madre, e una terza, più giovane, che ascolta e cerca di farsi strada fra nomi, fatti, epoche, mezzo secolo e passa di intrecci famigliari, pettegolezzi, cose viste e cose sentite, le voci che si accavallano, divagano, storie incominciate, lasciate cadere e poi riprese...
In principio, tutto è edificante: si criticano, certo, gli altri, ma la propria, di vita, è specchiata e la vecchiaia, si sa, vuol dire saggezza e incute rispetto. Così Thérèse racconta il suo amore per Firmin, il ragazzo con cui fuggì proprio da quel castello e che poi sposò, bello, onesto, lavoratore, e del suo pudore di fanciulla ancora ignara della vita, oggetto di mille insidie e però come salvaguardata dalla sua purezza, quegli occhi e quel sorriso da bambina... Ma è davvero così, ma non è vero che, ma non è successa anche quell’altra cosa e accaduto quel tale incontro, ma non c’è stato persino uno scandalo? «Lo sappiamo che sei furba. Lo sei anche adesso. Torniamo un po’ indietro, vuoi? Torniamo a uno o due anni dopo il mio matrimonio. Ridi? Non c’è niente da ridere, Thérèse»...
Un’anima forte, ha scritto Vauvenargues, è un’anima «dominata da qualche passione altera e coraggiosa». Thérèse è come «un furetto davanti a una conigliera: ero felice di essere una trappola, di avere denti capaci di far sanguinare; e di sentire il lamento dei conigli senza che nessuno sospettasse di me». La sua forza non viene dalla virtù e nemmeno dal possesso, viene dalla supremazia, dall’essere terra terra la più forte. «Il furetto non mangia carne, ecco perché me ne fregavo dei soldi. Beve il sangue. La gente che vuoi colpire non tiene a niente, tranne che ad amare; e te li ritrovi tra le grinfie. L’amore è tutta inquietudine. È il sangue più puro che si rinnova costantemente. Ne avrai a volontà. Tanto per cominciare».
È così che Thérèse entra nella vita dei Numance, una coppia facoltosa, anziana e senza figli. Sylvie Numance è assetata d’amore materno, vuole dare, vuole appagare: sogna di essere la sorgente dove Thérèse potrà per sempre abbeverarsi. «Allora, alla fine, mi mostrerò nuda e cruda. E vedranno che niente mi può appagare. È proprio come dirgli: non siete niente. Credevate di essere qualcosa: siete solo una rovina».
Non c’è nulla, nelle Anime forti, della Provenza dolce di Giono, nulla della pazza felicità dei suoi ussari, della saggezza contadina dell’uomo che piantava gli alberi, del rifiuto della violenza, della stupidità della guerra, del calore dell’amore e dell’amicizia... È un romanzo torbido, nero, dove la divinità da adorare si chiama sopraffazione e la vita è una lotta fra lupi in cui vince il più feroce, chi non ha scrupoli e non si distrae, chi ha come unico obiettivo l’annientamento del proprio avversario. Firmin, il marito di Thérèse, è anche lui un violento, il frutto di un mondo povero, primitivo, ma è uno sciocco, si illude e si fida, si sopravvaluta: finirà ammazzato. Ma l’amore di Sylvie Numance non è a suo modo un’altra forma di sopraffazione, il voler strappare una moglie al marito, una figlia ai veri genitori, un’indole al suo habitat naturale? Il suo donare non è la ricerca di una preda, un tutt’uno con i suoi «occhi di lupo», il suo disprezzo appena mascherato da un sorriso per le vite degli altri?
Giono era un lettore autodidatta e vorace, ammiratore fra gli altri di Melville e di Faulkner, di Balzac e di Dostoevskij e Le anime forti fa parte di quel mondo: gli ossessionati al servizio di qualcosa che li trascende e in qualche modo li illumina. All’inizio di quella che si rivelerà una vera e propria discesa negli inferi del cuore umano, Rose chiede a Thérèse: «Lei è davvero così infelice?» «Chi ti ha detto che sono infelice?» «Dice che non le va bene nessuno e che ha solo se stessa». «E dove la vedi la infelicità in tutto questo?».

Quando spunta il giorno e la storia finisce, è ancora Rose a commentare: «Dopo questa notte in bianco, lei è fresca come una rosa, Thérèse». «Perché non dovrei essere fresca come una rosa?». Una rosa rossa, color sangue.

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