Ci vuole eleganza anche nel vestirsi da pecore. Da pecoroni poi rende ancora più chic. Il made in Italy viene fatto fesso dal made in England and Usa, firmato Anna Wintour. Lo sanno tutti, la notte degli Oscar a Hollywood vale di più, molto di più delle sfilate noiose e prevedibili di Milano. Se lo dice Lei, la direttrice di Vogue allora è meglio belare, mettersi in fila più che in sfilata, credere, obbedire e far finta di combattere. Così hanno fatto i padroni della moda italiana, la settimana milanese si riduce, come tutto ormai in questo mondo in crisi, da sei a cinque, a quattro giorni, un millepiedi che si allunga e si ritrae, restando allo stesso posto.
La Wintour, in verità, aveva suggerito, anzi imposto il numero perfetto, tre, con l’aria tipica british, annoiata, di quella che all’alba ha già una fetta di pane tostato accanto al cuscino di lino, poi gioca a tennis, unico momento di vero sudore, quindi trasloca, tramite driver nel senso di autista personale, la sua aspra esistenza in ufficio, affonda sulle pratiche il caschetto alla Catherine Spaak dei favolosi anni Sessanta, mordicchia ipotesi di cibo, ogni tanto si ricorda degli uomini in quanto maschi ma lo specchio le impone di controllarsi ogni nanosecondo che Dio le ha dato. Ho scritto Dio?
La sfortuna del Creatore fu quella di essersi potuto riposare soltanto il settimo giorno, se avesse dato la vita a Anna invece che a Eva, probabilmente, anzi sicuramente, dopo tre giorni avrebbe concluso la pratica e mandato tutti, compreso se stesso, a scopare il mare. Sulle acque del Naviglio similmare sono segnalati con la ramazza tra le mani i nostri stilisti, quelli che mettono la loro testolina in fondo alla passerella, apparendo appena, timidamente, per non farsi riconoscere dal pubblico a casa che li inseguirebbe lungo tutta la pedana per via dei prezzi e del taglio improbabile di certi capi e per la tristezza che accompagna il viso e il passo delle indossatrici, affaticate e indefesse lavoratrici della lima e della pressa.
Comunque il dado è tratto, mentre i francesi restano dietro le loro barriques cantando la Marsigliese, da noi il gruppo non è compatto, dopo una serie di riunioni e dibattiti interni, i cosiddetti grandi sono arrivati alla storica conclusione: meglio piuttosto che niente, meglio quattro giorni che tre, la settimana non è bianca ma assume un colore che preferirei non abbinare. Non è mica finita qui: presto si avrà un conclave, senza camino o fumo bianco, e verrà deciso, in clausura, un calendario da osservare per evitare sorprese, roba da Ogino Knaus. Ne è sicuro Boselli Mario, il leader della Camera nazionale della moda.
Siamo uomini o caporali? Totò aveva ragione, la Wintour sapeva benissimo con chi ha a che fare, le rane francesi non sono uscite dal loro stagno, i mandolinari italiani si sono commossi e spaventati, la «perfida Annone» mette paura anche a chi rappresenta il 4 per cento del prodotto interno lordo e garantisce l’occupazione a oltre sessantacinquemila lavoratori. Ma chissenefrega, la figlia dell’ex direttore dell’Evening Standard ha deciso che Avatar e Hollywood sono più importanti di Versace e Armani. Il problema non è il potere di madame Wintour, bravissima nel mestiere suo a colpi di supertirature e vendite di Vogue. Semmai a preoccupare è la debolezza della squadra italiana, che, smentendo la propria antica origine latina, non soltanto si piega ma si spezza pure, una formazione che non ha un capitano ma conta molte, troppe soubrette, vanesie, comunque coccolate, protette e adorate dai media, anche nei casi più agghiaccianti di cattivo gusto o di creatività improbabile.
Così gli stilisti nostrani saranno costretti a fare i doppi turni, a concentrare nello stretto le loro idee, le fantasiose creazioni, inseguendo non soltanto il mercato ma soprattutto lo sguardo della signora londinese che inforca gli occhiali da sole anche quando c’è la nebbia a New York. Figuratevi sui Navigli.
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