Cannes - Quando sullo schermo appare La Sfinge, ovvero Belzebù, La Volpe, Il Gobbo, La Salamandra, Il Papa Nero, Il Divo Giulio e insomma Andreotti, si capisce subito che non staccheremo più gli occhi. Non importa che non sia quello vero, ma ci sono le sue grandi orecchie, le labbra sottili, i capelli fissati con la brillantina, affinché restino sempre ordinati, perché mai lui è stato disordinato nella vita, perché mai avrebbe voluto che la vita fosse, per lui, fonte di disordine. L'unica volta che è successo, la Mafia e tutto il resto, ha faticato a «pettinarla» di nuovo come un tempo: ci è riuscito, ma ormai l'incantesimo si era rotto e niente sarebbe più stato come prima…
Ecco la sua camminata, le spalle strette, il muoversi felpato eppure a scatti. Ecco le sue frasi celebri: «E' meglio tirare a campare che tirare le cuoia», «Dio ha detto di rispondere alle offese porgendo l'altra guancia, ma intelligentemente ce ne ha date solo due», «intellettualmente parlando, mi considero di statura media, ma se mi guardo intorno non è che veda molti giganti»…
Qualche mese fa, intervistando Toni Servillo ed avendogli chiesto qualcosa su quello che era ancora un film in lavorazione e ora è questo Il Divo, presentato ieri sera qui in concorso, mi ero sentito rispondere che no, non aveva mai incontrato Andreotti prima di allora e non lo avrebbe incontrato, almeno sino all'uscita del film, e ancora che no, non lo aveva studiato attraverso riprese e filmati. «Non credo all'imitazione in quanto tale», mi aveva detto allora.
Visti i risultati, aveva ragione, perché qui c'è un Andreotti, come dire, dell'anima, una sorta di quintessenza, e non importa tanto, che sia quello vero, che corrisponda alla realtà, è sufficiente che esso sia tutt'uno con l'immagine che in mezzo secolo di storia patria si è incisa nella nostra mente, l'immagine di un potere inafferrabile e astuto, silenzioso e spregiudicato, moralmente cinico, ovvero con un'etica particolare in cui si mischia lo spirito di una romanità popolare e clericale, la consapevolezza che siamo tutti peccatori e che quindi non ci si deve meravigliare di nulla...
Sullo schermo, in un film che è febbrile nel ritmo, iperrealista nelle descrizioni e negli ammazzamenti quanto spesso caricaturale nei personaggi, c'è anche il suo clan, che non è mai stato una corrente di partito tradizionale, ma un campionario italiano, cioè un «bestiario»: Lo Squalo e il Ciarra, 'O Ministro e Il Limone, Sua Santità e Sua Eccellenza, anche loro emblemi, perché poi tutto Il Divo è un'allegoria, anche feroce, sul potere, la sua gestione e la sua mancanza, la solitudine che lo accompagna.
«Il mio film preferito è Il dottor Jekill e Mister Hyde». Se questa frase di Andreotti è vera - non nel senso che non l'abbia mai pronunciata, ma nel suo crederci veramente -, Il Divo ne è in fondo l'illustrazione più completa. Così come negli altri suoi film Sorrentino era riuscito a costruire un'estetica del brutto capace di dargli una propria lancinante bellezza, qui è la politica a caricarsi di un fascino diabolico formale che nella realtà invece non possiede. Allo stesso modo, forse, quella sublimazione e quintessenza di cui si parlava prima, dà in fondo all'Andreotti cinematografico una grandezza, un'ambiguità sovrumana, che quello reale non ha mai posseduto.
A fronte di una letteratura sterminata, il regista ha privilegiato come linea interpretativa del personaggio due giudizi, entrambi frutto di una psicologia femminile, per quanto particolare. Uno è dell'ex premier britannico Margaret Thatcher: «Mi è sempre sembrato contrario a ogni principio etico, addirittura convinto che chi li possedesse fosse condannato a essere ridicolo». L'altro della scrittrice Oriana Fallaci: «Mi fa paura proprio per la sua gentilezza. Perché il vero potere ci strangola con sciarpe di seta, con cortesia e intelligenza».
Pur non avendo fatto nulla per contrastare il film, Andreotti, che lo ha visto in anteprima privata qualche giorno fa, ha già fatto sapere di non riconoscersi in esso e di considerarlo ingiusto nei sui confronti. Non ha tutti i torti, perché Sorrentino esaspera gli elementi negativi, li carica (la parossistica scena della «confessione» è da questo punto di vista emblematica).
Ieri sera non era ovviamente in sala alla applaudita proiezione per i critici, e non ci sarà a quella ufficiale: ma La Sfinge, Belzebù, La Volpe, Il Gobbo, La Salamandra, Il Papa Nero, il Divo Giulio al suo posto invece sarebbero andati e avrebbero ringraziato il pubblico con il loro indecifrabile sorriso.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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