Cultura e Spettacoli

Che cinema «bestiale»: volano aquile e pinguini

Il film sui palmipedi fa il boom d’incassi, e si profila il successo del docudrama dei rapaci sull’Everest

Cinzia Romani

Sono passati molti anni da quando Wittgenstein, nelle sue Philosophical Investigations, sosteneva che «se un leone potesse parlare, noi non riusciremmo a capirlo». E mentre l’uomo si rende sempre più lupo all’uomo, vediamo bene che il pensatore austriaco è stato superato dal cinema, almeno nel suo negativismo animale. Perché da oltre un ventennio sul grande schermo si esplora il territorio delle bestie, estraneo e familiare al tempo stesso, cercando le nostre risposte ad alcune domande di fondamentale rilevanza umana.
Il grande successo del curioso film sui pinguini imperatore, La marche de l’empereur, già caso commerciale e culturale in Francia (dov’è il terzo incasso assoluto della stagione, con sbaragliamento di La guerra dei mondi di Spielberg) è ulteriore testimonianza di come a noi occidentali, umani, mortali e adulti siano venuti a noia gli effetti speciali made in Usa. Sul palcoscenico del mondo allo stremo, insomma, i divi in frac presentati da Luc Jacquet e Jerôme Maison scivolano sulla punta emersa di un iceberg. Sotto, infatti, premono varie domande: com’è che il pubblico è assorbito dalle storie degli animali? Come mai cresce il popolo dei giovani documentaristi disposti a seppellirsi tra i ghiacci del mondo antartico, per tentare di capire gli altri, nello specifico i pinguini? E se agli albori delle scienze sociali, stranieri, animali e bambini erano considerati un gruppo omogeneo, cui veniva solitamente aggiunto un altro gruppo (i pazzi), al momento la settima arte sembra liberi ogni bestia dai pregiudizi di arretratezza o di brutalità.
Certi film, di fatto, denunciano l’esistenza di un’area grigia di sovrapposizione tra noi e loro, un’area in cui le qualità che condividiamo con gli animali (presunta innocenza, purezza di visione, religiosità naturale), si trovano assopite in noi e possono forse risvegliarsi a contatto con loro. Prendiamo il caso di Angelo D’Arrigo, il coraggioso cineasta italiano che ha girato Flying over Everest, prossimo evento al Cervino International Film Festival (da domani a domenica), dove peraltro si vedrà, in anteprima, Des Manchots et des Hommes («Dei pinguini e degli uomini»), documentario di un’ora della coppia Jacquet-Maison, sulle fasi di lavorazione del famoso film sugli uccelli antartici. Il nostro D’Arrigo, dicevamo, ha volato sull’Everest in deltaplano, sponsorizzato dalla Fiat. Ma ha voluto con sé, come compagni di cineavventura, due aquile delle steppe, il maschio Chumi e la femmina Gea, affiancato dai quali ha sorvolato l’Etna e il Cervino, tanto per allenarsi. Quasi a voler assorbire le loro capacità aviatorie, D’Arrigo ha vissuto per mesi con le aquile russe, addestrandole a volare con sé al campo-base sull’Everest, in totale simbiosi.
Da Balla coi lupi a Vola con le aquile? Nelle più recenti cinenarrazioni, comunque, protagonisti sono gli uomini e gli animali, che lavorano in team, non più in antagonismo come nella serie degli squali (Shark), antesignana dei copioni animalier ad alto impatto. Ed è già fiorita una leggenda, intorno al docudrama con le aquile: nelle ultime riprese, quelle in cui D’Arrigo sorvola l’Everest col suo deltaplano, si nota un’ombra su di lui, un’ombra dalle forme aquiline e già sappiamo che Chumi è morta al campo-base...
Chi non ricorda la fortuna al botteghino di Microcosmos (1996), sulla vita segreta di bestiole come formiche o maggiolini? E i trenta miliardi incassati, nel 1998, da L’orso di Jean-Jacques Annaud, che un paio d’anni fa drammatizzò, con buona riuscita, le vicende di due tigri in Due fratelli, non significa che la storia degli animali ci è assolutamente familiare? I quaranta miliardi di euro piovuti al box-office de Il popolo migratore (2001), di Jacques Perrin, che per le riprese impiegò, lungo quattro anni, 450 cameramen, dicono quanto stia crescendo la comprensione simpatetica del pubblico per i film, dov’è protagonista l’animale.

È come se il cinema avesse il potere di minimizzare il danno che facciamo a tutto quello che ancora è vivo e si muove.

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