RomaÈ proprio vero che ormai il cinema lo fa la tivù. Ieri se ne è avuta riprova con Il crollo dei giganti, avvincente thriller finanziario dell’oscarizzato Curtis Hanson, che ha cercato la stessa tensione del suo celebre L.A. Confidential per raccontare la madre di tutte le crisi di mercato. Fuori concorso, Il crollo dei giganti ha provocato un brivido di stretta attualità nel refettorio insonnolito dell’Auditorium, usato come pedana di lancio da Sky Cinema, che domani manderà in onda questo «instant movie», propagandato come «anteprima» da un festival a corto di tutto un po’. Ha invece molte cartucce da sparare la sconcertante cronaca della crisi finanziaria del 2008, quando il fallimento del colosso Lehman Brothers trascinò con sé l’economia mondiale, che ancora non si riprende dallo tsunami.
Avidità, rapacità e denaro che non dorme mai ballano sull’orlo del vulcano nella resa cinetelevisiva, che mette un febbrile William Hurt nel ruolo di Henry Paulson, ovvero il segretario del tesoro ed ex-presidente e amministratore delegato della banca d’affari Goldman Sachs. È lui l’eminenza grigia che dice: «Troppo grandi per fallire» (Too big to fail, è il titolo anglofono), riferendosi alle istituzioni finanziarie americane e così capiamo come tutto ebbe inizio. Perché nella primavera del 2008 la quinta banca d’investimento più potente degli Usa già perde colpi, soffocata dai mutui-spazzatura. E mentre la bancarotta si fa realtà, Paulson viene spinto da Dick Fuld (James Wood), amministratore delegato della banca, a rincorrere un pezzo grosso disposto a investire nella Lehman Brothers. E chi se ne importa se, giocandosi il tutto per tutto, Paulson andrà contro i propri principi. Intorno alla disperata impresa ruotano così i «giganti» che governano l’economia del pianeta: il presidente della Federal Reserve Ben Bernanke (qui Paul Giamatti), il presidente della New York Federal Reserve Bank Timothy Geithner (Billy Crudup) e il Presidente della Morgan Chase, Jamie Dimon (Bill Pullman). Personaggi, insomma, di cui i media parlano continuamente e che spesso si vedono in tivù. Come aggirare l’ostacolo del mattone macroeconomico, volendo intrigare il pubblico, raccontandogli come stanno i fatti? Il film, d’altronde, parte dall’omonimo bestseller (De Agostini) di Andrew Ross Sorkin, giornalista economico del New York Times, che fece scoop mettendo insieme una gran massa di interviste, rendiconti e testimonianze. È vero che ormai pure le casalinghe conoscono lo spread, ma per rendere sexy l’intricata matassa degli imbrogli planetari, a livello di cifre e numeri, occorreva addentrarsi nelle vite dei broker, mirando all’aspetto umano del crollo. È un mondo esclusivamente maschile, quello dell’alta finanza che gioca con le nostre esistenze, eccezion fatta per l’assistente segretario per gli affari pubblici Cynthia Nixon.
«La maggior parte dei miei film presenta personaggi, che cercano una via d’uscita. È quello che fa Paulson nel film, sebbene tutti lo incolpino della più grande depressione del terzo millennio», spiega Curtis Hanson. «A me interessano i personaggi, mi piace ritrarli in circostanze difficili», continua il regista, che non giudica banchieri e filibustieri, limitandosi a presentarli così come sono: lucide carogne. Così Hanson, tramite la sua cronaca d’un disastro annunciato, che ci porta da anonimi uffici in Corea del Sud ai freddi corridoi di Washington, dove le leve del potere servono le banche, abbozza una denuncia civile. Intanto, domani potremmo essere proprio noi quei giganti «troppo grandi per fallire».
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