Cultura e Spettacoli

Ma che noia questa destra onnivora

Mellone accusa gli storici di covare inutili nostalgie per l’eredità e i miti del passato. Il vero rischio è quello di una forza che, volendo inglobare tutto, perde la sua identità

Ma che noia questa destra onnivora

Perché gli intellettuali di destra non si occupano della Destra? Così, sconsolato, si è interrogato l’intellettuale di destra Angelo Mellone sul Giornale dell’altro ieri. «Strano ma vero», proprio adesso che la Destra si è fatta «forza di governo, senso comune, cultura popolare maggioritaria» non ne parlano, non si entusiasmano, peggio la dileggiano...

Come accade a tutti gli innamorati (nella vita come nella politica), Mellone non riesce a capacitarsi che l’oggetto del suo amore non goda del più generale apprezzamento. Lo vede bello, seducente e coinvolgente, come è possibile che possa non piacere? «Nostalgia e risentimento» è la sua spiegazione, qualcosa dunque che non riguarda la ragione, ma sta fra l’anagrafico e il sentimentale.

Curiosamente, l’autore di Di’ qualcosa di destra e il coautore di La destra nuova imputa agli antipatizzanti quella che, a ben vedere, è caso mai una pecca dei simpatizzanti. Se questo soggetto politico è così importante da studiare, se «negli ultimi quindici anni la cultura politica di destra ha trovato aria nuova e rinnovata sulle riviste, sui quotidiani, nelle iniziative editoriali, nei media elettronici e persino nelle università» cosa impedisce a chi non ha in sé la tabe della nostalgia e del risentimento di dare alle stampe l’opus che analizzi a fondo «la storia, le idee, la organizzazione e le tappe istituzionali della destra, in Italia, dal 1994 a oggi?». Per inseguire il paradosso dello «strano ma vero» che è alla base della sua analisi, Mellone imbocca una strada senza uscita: minimizza e/o nasconde il lavoro critico dei simpatizzanti, che pure esiste, magari discutibile, ma esiste, e se la prende con la nostalgia canaglia di chi invece rema contro. Un po’ come il destino «cinico e baro» a cui Giuseppe Saragat imputava i rovesci elettorali del suo partito. Nell’articolo in questione Mellone mette sul banco degli imputati nomi fra loro diversissimi, da Marco Tarchi a Marcello Veneziani, da Pietrangelo Buttafuoco ad Alessandro Giuli, al sottoscritto, e non sta certo a me spiegare le ragioni oppure i torti altrui, ma avendo scritto, più di dieci anni fa, un pamphlet che si intitolava Per farla finita con la destra, credo di poter essere esentato dal dovermi appassionare sul tema. Ho già dato, insomma.

Da osservatore disincantato quanto scettico vorrei però indicare a Mellone un paio di elementi che nulla hanno a che fare con la nostalgia e il risentimento, ma molto invece con la politica e la politologia. Il primo riguarda il paradosso di un partito (perché poi la destra di Mellone è questo, la storia del Msi che diventa Alleanza Nazionale e poi approda nel Partito della Libertà) che per poter continuare a vincere (?) si è dovuto annullare (come ben si sa, è Alleanza nazionale che ha celebrato in un congresso il proprio scioglimento, non Forza Italia). Si è assistito a questo proposito a molti contorcimenti intellettuali, tenuti in piedi alla fine da un hegelismo un po’ raffazzonato (ciò che è reale è razionale), travestito via via da libertà di manovra, fine di un equivoco, necessità di fare tabula rasa, e simili.

Il secondo riguarda l’ossessione onnivora di assimilare culture altre, basata sull’assioma che essendo scomparse le ideologie non abbiano più senso gli steccati ideologici che le recintavano. La cosa curiosa è però che questa contaminazione, questo attraversamento di campo post-ideologico avviene continuando a ogni piè sospinto a rivendicare una cultura di destra e un’appartenenza a destra, un andare oltre, al di là della destra e della sinistra, dicendo di restare sempre e comunque a destra... Dopo averlo scritto, mi rendo conto che un lettore giudicherà il tutto quanto meno schizofrenico, ma non è colpa mia, è colpa di chi lo teorizza.

L’impressione, insomma, è quella di una classe dirigente che ha accettato la subordinazione al più potente alleato in cambio di una rendita di potere (legittima per carità) e di un ceto intellettuale che, invece, si barcamena fra la fronda, il quieto vivere, il non voler vedere, il trionfalismo a volte querimonioso e l’elaborazione di scenari prossimi venturi tanto mobili quanto evanescenti, intorno ai quali più che il rigore dello storico sarebbe meglio adatta la palla di vetro della chiromante.

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