Che noia: torna il duello tra Walter il Peluche e Massimo il Gormito

Con linguaggio giovanile si dovrebbe dire soltanto: che palle! Non se ne può più: ancora D’Alema contro Veltroni e Veltroni contro D’Alema? È veramente troppo. Guardiamoli in faccia, questi due, in quanto leader, leader falliti, aspiranti leader, duellanti leader.
Partiamo da D’Alema. Quel che quest’uomo ha da offrire come immagine è la serietà, il senso di responsabilità, quel certo cinismo istituzionale che a molti provoca l’ammirata esclamazione secondo cui «È un vero leader, anzi uno statista». Il suo notorio caratteraccio, sprezzante e umorale si accompagna a questo ritratto. Opere buone compiute: un governo di sgambetto voluto dagli americani, governava Bill Clinton, per fare la guerra alla Serbia. Ce lo portò Cossiga a Palazzo Chigi con uno colpo di mano parlamentare preparato con cura. Sotto il suo governo si inverò il detto secondo cui Palazzo Chigi era l’unica «merchant bank» dove non si parlasse inglese.
Adesso D’Alema sembra seguire un copione sperimentato e di struttura solida: quello secondo cui Annibale (in questo caso il misterioso complotto) è alle porte, il che permette di dire che è giunta l’ora di «assumersi le responsabilità», l’ora in cui i duri entrano in campo e dicono «ragazzo lasciami il tuo posto e vatti a mangiare un gelato», dove il ragazzo è Franceschini
Segni caratteristici: nessuna visibile tensione ideale, non uno straccio di sogno ideologico, ma soltanto brevi note asciutte che sembrano uscire dalla scuola Normale di Pisa dove D’Alema non terminò gli studi benché eccellesse.
Questo cinismo istituzionale, questo pragmatismo «responsabile», questo doppiopettismo con occhiali cerchiati di oro sottile sopra baffi perfetti come quelli di Clark Gable o di un prefetto dell’Italietta, fece dire a Nanni Moretti «D’Alema, dì qualcosa di sinistra». D’Alema è infatti un leader della sinistra che non dice cose di sinistra salvo che in politica estera, quando si rilassa nella promenade sottobraccio ad Hezbollah.
Dall’altra parte Veltroni, il quale, diversamente da D’Alema, è simpatico e tenerone per definizione. Veltroni potrebbe essere venduto anche come cucciolotto in peluche, mentre D’Alema è palesemente un Gormito (chi non ha bambini forse non capirà, ma si informi dal primo tabaccaio che razza di mostri di plastica grintosi e sparasiluri che sono i Gormiti), probabilmente appartenente al popolo della notte. Il cucciolotto Veltroni, diversamente dal gormito D’Alema è un sognatore nato. Sogna di essere John Fitzgerald Kennedy, poi sogna di essere Bob Kennedy, poi sogna di essere Martin Luther King, poi sogna di essere Bill Clinton, poi sogna di essere John Kerry e infine – un lampo di genio – sogna di essere Barack Obama che grida «Yes we can».
Veltroni sogna sogni altrui e ci ricorda quel personaggio di Jorge Luis Borges il quale studiava per decenni, andando da uno stregone, come far diventare vero un figlio sognato, solo per scoprire di essere lui stesso figlio di un sogno e dunque di non esistere. Infatti i sogni di Uòlter, e glie lo abbiamo detto e scritto e cantato mille volte, sono sogni finti, sogni di seconda mano, sogni per altre taglie e altre misure, sogni in inches invece che in centimetri e (anche questo) spiega perché alla fine toppi, ovvero fallisca, inciampi, non concluda, non vinca, con grande costernazione di chi è convinto, come noi siamo, che una democrazia senza un leader di sinistra capace di sognare sia una democrazia zoppa.
Qualcosa in comune fra i due stanchi pugili romani? Forse il vecchio comune vizio della sinistra italiana di buttarla in emergenzialismo, Annibale sempre alle porte per scavalcare quel banale inconveniente che consiste nel non aver vinto le elezioni o i congressi o entrambi, ma anzi di aver perso. D’Alema specialmente questa tendenzina ce l’ha: tende a minimizzare il fatto di non aver ottenuto il plebeo conforto delle urne, un accidente sul quale soprassiederebbe volentieri per motivi di eleganza. Lui alla banale faccenda di chi vince e chi perde tende a passarci sopra, come fece nel 1998 quando si sostituì a Prodi, e sarebbe di certo pronto a rifarlo oggi, senza per questo escludere il domani.
Veltroni d’altra parte è stato allevato nella stessa batteria e i vecchi padri da cui discendono politicamente erano della scuola secondo cui il partito per eccellenza, cioè il Pci, non governava non per la banale circostanza di non aver mai vinto le elezioni, ma perché i cattivi americani glielo impedivano. Ciò consigliava alle Botteghe Oscure, finché di lì veniva una fioca luce, di coltivare la linea dell’emergenza (un complotto, il terrorismo, il neofascismo, la mafia, la crisi economica, una certa diffusa malinconia) che appunto consiste nel dire che data la situazione grave ed eccezionale, facendo un certo sacrificio, coloro che sono stati bastonati alle elezioni o ai congressi sono tuttavia pronti ad assumersi gravi e non richieste responsabilità.
Come poi la storia ci ha insegnato, per dispetto, l’unico modo di mandare a Palazzo Chigi un comunista che non aveva vinto è stato farlo imporre dai cattivi americani, che ne avevano bisogno per loro motivi strategici.
E qui siamo all’oggi. Il vecchio partito comunista ancora oggi non candida i suoi uomini per il Palazzo (e se lo fa, fallisce), ma preferisce sempre nascondersi dietro nomi democristiani di vecchia e nuova generazione come Prodi e Franceschini, mentre i comunisti tendono a restare in seconda fila, salvo fare lo sgambetto e passare in prima. Così adesso Franceschini è l’uomo di paglia di cui si serve Veltroni per dire “lui lo difendo io, ma se occorre sono pronto a sostituirlo”, ma è anche l’ostaggio di D’Alema che lo difende a patto che si schieri con lui.
Come si vede, la faccenda si fa stantia. I due macchinano e si contrappongono, usando Franceschini come pupazzo. D’Alema finge di sostenerlo purché quello si distanzi da Veltroni e Veltroni lo sottopone a mobbing purché faccia le boccacce a D’Alema. Sicché quel poveraccio di Franceschini rischia di perdere la testa in ogni caso.
La sconsolata conclusione è che la sinistra non ha ricambi. Si dirà che neanche il centrodestra ne ha, visto che ruota intorno a un solo leader, il che è vero, con la differenza che quello del centrodestra vince e anche quando perde non si fa scalzare da nessuno. Ma la regola generale in democrazia sarebbe che chi perde cade, sparisce, va a scrivere le sue memorie, come del resto D’Alema consigliava di fare a Cossiga, prima che quest’ultimo lo adottasse. Così, Veltroni non va in Africa a scrivere quant’è verde il continente nero e D’Alema non prende il mare cazzando la randa, perché invece sta attraccato al molo del partito in via di estinzione. L’uno senza idee, l’altro senza sogni.

Entrambi con un conto in sospeso l’uno con l’altro e invecchiati sulla scacchiera di una partita che non appassiona più nessuno, specialmente il popolo della sinistra che mostra ormai irreversibili tendenze al suicidio.

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